NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI INERENTI AL DIVORZIO
    
  COS’É LA GIURISPRUDENZA? 
  La  
  giurisprudenza
    
  è  
  l’insieme  
  delle  
  sentenze  
  nelle  
  quali  
  sono  
  state  
  interpretate  
  le  
  norme  
  relative  
  ad  
  uno 
  specifico  
  istituto  
  giuridico  
  (ad  
  es.  
  assegno  
  divorzile,  
  furto,  
  usucapione),  
  emesse  
  dagli  
  Organi  
  Giurisdizionali  
  (Giudici 
  di Pace, Tribunali, Corti di Appello, Corte di Cassazione) dell’intera Nazione. 
  Ad   
  es.   
  l’insieme   
  delle   
  sentenze   
  nelle   
  quali   
  è   
  stata   
  determinata   
  la   
  misura   
  dell’assegno   
  di   
  divorzio   
  è   
  “la 
  giurisprudenza  
  sulla  
  determinazione  
  dell’assegno  
  di  
  divorzio”.  
  L’insieme  
  delle  
  sentenze  
  che  
  hanno  
  trattato  
  il  
  reato  
  di 
  furto è “la giurisprudenza sul reato di furto”etc..
  Può accadere che: 
  1
  .
  Tutti  
  i  
  giudici  
  emettono,  
  su  
  casi  
  con  
  caratteristiche  
  identiche,  
  sentenze  
  contenenti  
  un’interpretazione  
  univoca 
  della legge. In questo caso si parla di “
  giurisprudenza univoca”
  .
  2
  .
  Oppure,  
  se  
  la  
  legge  
  contiene  
  delle  
  frasi  
  ambigue,  
  su  
  casi  
  con  
  caratteristiche  
  identiche,  
  alcuni  
  giudici  
  possono 
  interpretare  
  la  
  legge  
  in  
  un  
  modo  
  e  
  altri  
  in  
  modo  
  differente  
  o  
  addirittura  
  opposto.  
  In  
  questa  
  ipotesi  
  se  
  vi  
  è  
  una 
  maggioranza
    
  di  
  giudici  
  che  
  interpreta  
  la  
  legge  
  in  
  uno  
  specifico  
  modo  
  e  
  una  
  relativa  
  minoranza
    
  che  
  la  
  interpreta 
  in   
  modo   
  differente   
  od   
  opposto,   
  si   
  dice   
  che   
  esiste   
  rispettivamente   
  una   
  giurisprudenza  
  “maggioritaria”
     
  o 
  “dominante”
   
  (nel primo caso) e una relativa “
  giurisprudenza minoritaria” 
  (nel secondo). 
  3
  .
  Se  
  non  
  c’è  
  una  
  maggioranza  
  e  
  una  
  relativa  
  minoranza  
  di  
  giudici  
  che  
  interpretano  
  la  
  legge  
  in  
  modi  
  differenti  
  ma 
  la  
  misura  
  di  
  due  
  orientamenti  
  interpretativi,  
  su  
  casi  
  con  
  caratteristiche  
  identiche,  
  è  
  vicina  
  al  
  50%,  
  o  
  se  
  vi  
  sono 
  più  
  orientamenti  
  nessuno  
  dei  
  quali  
  costituisce  
  una  
  maggioranza  
  assoluta,  
  (cioè  
  il  
  50%  
  più  
  1  
  delle  
  sentenze 
  complessive su uno specifico istituto) si dice che su quella materia 
  “il diritto è controverso”
  .
  Questa  
  divergenza  
  nell’interpretazione  
  della  
  legge  
  può  
  verificarsi  
  non  
  solo  
  tra  
  Organi  
  Giurisdizionali  
  di  
  diverse 
  città ma anche tra giudici dello stesso tribunale. 
  Questo  
  può  
  avvenire  
  (e  
  comunemente  
  avviene)  
  perché  
  nessun  
  giudice  
  è  
  vincolato  
  al  
  rispetto  
  delle  
  regole 
  espresse  
  in  
  una  
  sentenza  
  emessa  
  da  
  altri  
  giudici  
  su  
  un  
  caso  
  analogo  
  o  
  identico  
  a  
  quello  
  che  
  sta  
  trattando.  
  Se  
  lo  
  fosse 
  infatti,  
  il  
  giudice  
  che  
  emettesse  
  per  
  primo  
  una  
  sentenza  
  su  
  uno  
  specifico  
  caso,  
  vincolando  
  tutti  
  gli  
  altri  
  alla  
  sua 
  interpretazione produrrebbe una regola valevole 
  erga omnes
   e cioè una legge. 
  In  
  questa  
  ipotesi  
  per  
  assurdo,  
  un  
  giudice  
  che  
  non  
  è  
  stato  
  eletto  
  da  
  nessuno,  
  avrebbe  
  il  
  potere  
  di  
  vincolare  
  tutti  
  i 
  cittadini italiani ad obbedire ad una regola che lui da solo ha stabilito nella sua sentenza.  
  In  
  sostanza,  
  se  
  i  
  giudici  
  fossero  
  tenuti  
  a  
  rispettare  
  l’orientamento  
  e  
  l’interpretazione  
  della  
  legge  
  eseguita  
  da  
  un 
  altro  
  giudice,  
  quest’ultimo  
  oltre  
  al  
  potere  
  giudiziario,  
  (cioè  
  di  
  far  
  rispettare  
  le  
  leggi)  
  avrebbe  
  anche  
  il  
  potere  
  legislativo 
  (cioè di creare le leggi), vincolando alla sua interpretazione tutti gli altri giudici e dunque tutti i cittadini.
  Per  
  questo  
  motivo  
  e  
  per  
  il  
  fatto  
  della  
  tripartizione  
  dei  
  poteri  
  (
  legislativo,  
  esecutivo  
  e  
  giudiziario
  )  
  stabilita  
  dalla 
  Carta  
  Costituzionale,  
  anche  
  il  
  Giudice  
  di  
  Pace  
  ad  
  es.  
  di  
  Canicattì  
  è  
  libero  
  di  
  non  
  ossequiare  
  l’interpretazione  
  della 
  legge  
  contenuta  
  in  
  un’altra  
  sentenza,  
  nemmeno  
  se  
  si  
  tratta  
  di  
  una  
  sentenza  
  della  
  Suprema  
  Corte  
  di  
  Cassazione  
  a 
  Sezioni Unite emessa su un caso con caratteristiche identiche a quello che sta trattando.     
  É  
  infatti  
  previsto  
  che  
  le  
  sentenze  
  abbiano  
  effetto  
  solo  
  relativamente  
  alle  
  parti  
  in  
  lite  
  nei  
  confronti  
  delle  
  quali 
  vengono emesse. 
  A COSA SERVE E COME VIENE USATA LA GIURISPRUDENZA?
  Detto  
  quanto  
  sopra,  
  la  
  giurisprudenza  
  viene  
  citata  
  negli  
  atti  
  per  
  confortare  
  una  
  determinata  
  ricostruzione 
  interpretativa  
  della  
  legge  
  che  
  è  
  stata  
  condivisa  
  già  
  da  
  altri  
  giudici  
  ed  
  esercitare,  
  de  
  facto,  
  in  
  questo  
  modo,  
  un 
  influenza  
  sul  
  giudicante  
  della  
  specifica  
  causa  
  trattata.  
  Per  
  questo  
  motivo  
  è  
  importante  
  un  
  approfondito  
  studio  
  della 
  giurisprudenza nei giudizi contenziosi.
  La  
  sentenza  
  che  
  segue,  
  emessa  
  di  
  recente,  
  che  
  ha  
  suscitato  
  molto  
  clamore  
  ed  
  è  
  stata  
  oggetto  
  di  
  numerosi 
  programmi  
  televisivi,  
  afferma  
  che  
  nel  
  divorzio  
  per  
  determinare  
  l’
  an  
  debeatur
    
  cioè  
  se  
  è  
  dovuto  
  l’assegno  
  divorzile  
   
  (
  vedi  
  il  
  capitolo  
  dedicato
  ),  
  non  
  bisogna  
  aver  
  riguardo  
  alla  
  capacità  
  del  
  coniuge  
  economicamente  
  più  
  debole  
  di 
  conservare  
  autonomamente  
  il  
  tenore  
  di  
  vita  
  goduto  
  in  
  costanza  
  di  
  matrimonio,  
  ma  
  alla  
  capacità  
  dello  
  stesso  
  di 
  conseguire    
  autonomamente   
  “l’indipendenza    
  economica”.    
  Se    
  ha    
  la    
  capacità    
  di    
  conseguire    
  autonomamente 
  l’indipendenza  
  economica  
  l’assegno  
  gli  
  va  
  negato  
  anche  
  se  
  non  
  ha  
  la  
  capacità  
  di  
  conservare  
  autonomamente  
  il 
  tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. 
  Questa   
  sentenza,   
  molto   
  criticata,   
  che   
  rappresenta   
  una   
  giurisprudenza   
  ancora   
  minoritaria,   
  è   
  relativamente 
  disattesa dai Tribunali di merito.  
  Le principali critiche alla sentenza: 
  Il  
  concetto  
  di  
  indipendenza
    
  economica  
  del  
  coniuge  
  non  
  è  
  definito.  
  Significa  
  che  
  non  
  dipende
    
  dall’altro  
  coniuge, 
  ma  
  per  
  fare  
  cosa?  
  Se  
  il  
  coniuge  
  più  
  debole  
  non  
  dipende  
  dall’altro  
  perché  
  è  
  in  
  grado  
  di  
  nutrirsi  
  e  
  di  
  proteggersi  
  dalla 
  intemperie  
  perché  
  ha  
  ad  
  es.  
  un  
  monolocale  
  a  
  Tor  
  Bella  
  Monaca,  
  cioè  
  è  
  in  
  grado  
  di  
  procurarsi  
  autonomamente  
  la 
  minima  
  sussistenza  
  in  
  vita,  
    
  la  
  concessione  
  dell’
  assegno  
  divorzile
  ,  
  secondo  
  i  
  giudici  
  che  
  hanno  
  emesso  
  questa 
  sentenza,  
  sarebbe  
  sottoposta  
  agli  
  stessi  
  requisiti  
  previsti  
  per  
  la  
  concessione  
  dell’
  assegno  
  alimentare
  ,  
  ma  
  questo  
  non 
  è previsto dalla legge. 
  Inoltre  
  questa  
  interpretazione  
  della  
  legge  
  produce  
  effetti  
  paradossali:  
  se  
  ad  
  es.  
  la  
  moglie  
  di  
  Berlusconi  
  avesse 
  un  
  monolocale  
  e  
  un  
  lavoro  
  in  
  un  
  call  
  center  
  allora  
  non  
  avrebbe  
  diritto  
  ad  
  alcun  
  assegno  
  divorzile,  
  mentre  
  se  
  non 
  avesse il monolocale allora avrebbe diritto ad un assegno di 2 milioni di € al mese per tutta la vita. 
  É  
  evidente  
  che  
  questa  
  interpretazione  
  della  
  legge  
  creerebbe  
  delle  
  sperequazioni  
  enormi  
  tra  
  cittadini  
  che  
  si 
  trovano in condizioni quasi identiche.  
  Un’altra   
  critica   
  mossa   
  a   
  questa   
  sentenza   
  è   
  fondata   
  sul   
  fatto   
  che   
  l’art.   
  143   
  del   
  codice   
  civile   
  equipara 
  espressamente  
  il  
  lavoro  
  casalingo  
  a  
  quello  
  professionale:  
  se  
  la  
  moglie  
  fa  
  la  
  baby  
  sitter;  
  la  
  lavandaia;  
  la  
  stiratrice;  
  la 
  cuoca   
  etc.   
  in   
  casa,   
  ha   
  diritto   
  non   
  solo   
  di   
  condividere   
  le   
  risorse   
  conseguite   
  dal   
  marito   
  che   
  esegue   
  un   
  lavoro 
  professionale fuori casa, ma anche a nutrire le stesse aspettative di benessere che nutre il marito per il futuro. 
  Immaginiamo  
  che  
  la  
  Legge  
  dicesse  
  invece  
  alla  
  moglie:  
  se  
  lavori  
  in  
  casa
    
  facendo  
  la  
  baby  
  sitter,  
  la  
  lavandaia,  
  la 
  stiratrice,  
  la  
  cuoca,  
  la  
  donna  
  delle  
  pulizie,  
  etc.  
  mentre  
  tuo  
  marito  
  fa  
  carriera  
  lavorando  
  fuori  
  casa
    
  e  
  aumentando  
  i 
  propri  
  redditi,  
  qualora  
  tuo  
  marito  
  chiede  
  il  
  divorzio,  
  se  
  hai  
  una  
  minima  
  autosufficienza  
  rimarrai  
  solo  
  con  
  quella.  
  Ciò 
  proprio  
  perché  
  scegliendo  
  di  
  lavorare  
  in  
  casa,  
  non  
  hai  
  potuto  
  fare  
  carriera  
  a  
  differenza  
  di  
  tuo  
  marito.  
  Se  
  la  
  legge 
  stabilisse  
  questo,  
  è  
  improbabile  
  che  
  la  
  moglie  
  accetterebbe  
  di  
  inserirsi  
  in  
  questo  
  meccanismo  
  che  
  le  
  impedisce  
  di 
  sviluppare  
  la  
  propria  
  personale  
  economia  
  per  
  dedicarsi  
  alla  
  famiglia,  
  sapendo  
  che  
  può  
  trovarsi,  
  per  
  questo  
  motivo,  
  in 
  una  
  condizione  
  di  
  minima  
  autosufficienza,  
  con  
  il  
  divorzio,  
  in  
  qualunque  
  momento.  
  Se  
  si  
  divide  
  il  
  lavoro  
  familiare  
  da 
  eseguirsi  
  in  
  casa  
  e  
  fuori  
  casa,  
  devono  
  essere  
  divisi  
  anche  
  i  
  redditi  
  non  
  importa  
  chi  
  dei  
  due  
  li  
  consegue.  
  Questo 
  stabilisce  
  l’art.  
  143  
  c.c.  
  in  
  costanza  
  di  
  matrimonio.  
  Questo  
  è  
  stato  
  l’orientamento  
  della  
  S.  
  C.  
  per  
  circa  
  30  
  anni  
  ed  
  è 
  anche  
  il  
  motivo  
  per  
  cui  
  il  
  legislatore  
  ad.  
  es.  
  ha  
  previsto  
  che  
  alla  
  moglie,  
  ricorrendone  
  i  
  presupposti,  
  spetta  
  il  
  40%  
  del 
  TFR
   conseguito dal marito. 
  Un  
  altro  
  esempio,  
  più  
  elementare:  
  un  
  uomo  
  e  
  una  
  donna  
  si  
  trovano  
  su  
  un’isola  
  deserta  
  e  
  si  
  accordano  
  così: 
  l’uomo  
  va  
  a  
  pescare,  
  la  
  donna  
  accende  
  il  
  fuoco,  
  poi  
  cucineranno  
  il  
  pesce  
  sul  
  fuoco  
  e  
  si  
  nutriranno  
  entrambi.  
  La  
  donna 
  accende  
  il  
  fuoco  
  ma  
  quando  
  l’uomo  
  torna  
  con  
  il  
  pescato  
  dice:  
  <ci  
  ho  
  ripensato:  
  mangio  
  solo  
  io  
  il  
  pesce  
  crudo  
  e  
  tu 
  muori  
  di  
  fame>.  
  È  
  ovvio  
  che  
  la  
  donna  
  non  
  si  
  sarebbe  
  dedicata  
  ad  
  accendere  
  il  
  fuoco  
  se  
  avesse  
  saputo  
  che  
  avrebbe 
  potuto  
  morire  
  di  
  fame  
  con  
  quella  
  scelta.  
  Se  
  la  
  legge  
  dicesse  
  alla  
  moglie  
  <se  
  lavori  
  in  
  casa  
  puoi  
  trovarti  
  a  
  vivere  
  per 
  questo  
  motivo  
  con  
  la  
  minima  
  autosufficienza>,  
  ci  
  sarebbero  
  poche  
  donne  
  che  
  accetterebbero  
  di  
  occuparsi  
  della 
  crescita  
  dei  
  figli  
  e  
  di  
  lavorare  
  in  
  casa.  
  Questa  
  condizione  
  e  
  questo  
  regime  
  giuridico  
  inciderebbe  
  sulla  
  natalità  
  della 
  Nazione  
  ed  
  è  
  contrario  
  ai  
  principi  
  di  
  diritto  
  che  
  informano  
  l’ordinamento  
  italiano  
  e  
  specificamente  
  il  
  diritto  
  di 
  famiglia.   
  CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
  Sezione Prima Civile
  Sentenza n. 11504 del 10 maggio 2017
   Presidente Di Palma Relatore Lamorgese
  Fatti di causa 
  1. 
  –  
  Il  
  Tribunale  
  di  
  Milano  
  ha  
  dichiarato  
  lo  
  scioglimento  
  del  
  matrimonio,  
  contratto  
  nel  
  1993,  
  tra  
  Vi.Gr..  
  e  
  Li.  
  Ca. 
  Lo. ed ha respinto la domanda di assegno divorzile proposta da quest’ultima.  
  2. 
  –  
  Il  
  gravame  
  della  
  Lo.  
  è  
  stato  
  rigettato  
  dalla  
  Corte  
  d’appello  
  di  
  Milano,  
  con  
  sentenza  
  27  
  marzo  
  2014.  
    
  2.1. 
  –  
  La 
  Corte,  
  avendo  
  ritenuto  
  che  
  il  
  luogo  
  di  
  residenza  
  della  
  Lo.  
  (convenuta  
  nel  
  giudizio)  
  fosse  
  a  
  (omissis…),  
  ha  
  rigettato 
  l’eccezione  
  di  
  incompetenza  
  territoriale  
  del  
  Tribunale  
  di  
  Milano,  
  a  
  favore  
  del  
  Tribunale  
  di  
  Roma,  
  ove  
  era  
  la  
  residenza 
  o  
  il  
  domicilio  
  del  
  ricorrente  
  Gr.,  
  da  
  essa  
  sollevata  
  sul  
  presupposto  
  della  
  propria  
  residenza  
  all’estero,  
  a  
  norma  
  dell’art. 
  4,  
  comma  
  1,  
  della  
  legge  
  1.  
  dicembre  
  1970,  
  n.  
  898;  
  ha  
  ritenuto  
  poi  
  non  
  dovuto  
  l’assegno  
  divorzile  
  in  
  favore  
  della  
  Lo., 
  non  
  avendo  
  questa  
  dimostrato  
  l’inadeguatezza  
  dei  
  propri  
  redditi  
  ai  
  fini  
  della  
  conservazione  
  del  
  tenore  
  di  
  vita 
  matrimoniale,  
  stante  
  l’incompletezza  
  della  
  documentazione  
  reddituale  
  da  
  essa  
  prodotta,  
  in  
  una  
  situazione  
  di  
  fatto  
  in 
  cui l’altro coniuge aveva subito una contrazione reddituale successivamente allo scioglimento del matrimonio.  
  3.  
  –  
  Avverso  
  questa  
  sentenza  
  la  
  Lo.  
  ha  
  proposto  
  ricorso  
  per  
  cassazione  
  sulla  
  base  
  di  
  quattro  
  motivi,  
  cui  
  si  
  è 
  opposto  
  il  
  Gr.  
  Con  
  controricorso.  
  Le  
  parti  
  hanno  
  presentato  
  memorie  
  ex  
  art.  
  378  
  cod.  
  proc.  
  civ.  
    
  Ragioni  
  della 
  decisione:  
    
  1. 
  –  
  Con  
  il  
  primo  
  motivo  
  la  
  ricorrente  
  ha  
  denunciato  
  la  
  violazione  
  dell’art.  
  4,  
  comma  
  1,  
  della  
  legge  
  n.  
  898 
  del  
  1970,  
  per  
  avere  
  la  
  Corte  
  d’appello  
  affermato  
  la  
  competenza  
  per  
  territorio  
  del  
  Tribunale  
  di  
  Milano,  
  essendo  
  invece 
  competente  
  il  
  Tribunale  
  di  
  Roma,  
  ove  
  era  
  la  
  residenza  
  o  
  il  
  domicilio  
  del  
  ricorrente  
  Gr.,  
  essendo  
  la  
  convenuta 
  residente all’estero.  
  1.1.  
  –  
  Il  
  motivo  
  è  
  infondato.  
  Premesso  
  che,  
  contrariamente  
  a  
  quanto  
  sostenuto  
  dal  
  Gr.,  
  la  
  questione  
  della 
  competenza   
  è   
  stata   
  riproposta   
  in   
  appello   
  e   
  che   
  su   
  di   
  essa,   
  quindi,   
  non   
  si   
  è   
  formato   
  il   
  giudicato,   
  la   
  sentenza 
  impugnata  
  ha  
  ragionevolmente  
  valorizzato  
  quanto  
  dichiarato  
  dalla  
  Lo.  
  (convenuta  
  nel  
  giudizio)  
  nell’atto  
  di  
  appello, 
  e   
  in   
  altri   
  atti   
  giudiziari,   
  circa   
  la   
  sua   
  residenza   
  a   
  (omissis…)   
  (Mi),   
  che   
  corrispondeva   
  a   
  quanto   
  risultava   
  dalle 
  certificazioni  
  anagrafiche,  
  giudicando  
  irrilevante  
  la  
  diversa  
  indicazione,  
  resa  
  all’udienza  
  presidenziale,  
  di  
  essere 
  residente  
  a  
  (omissis…),  
  luogo  
  quest’ultimo  
  rientrante  
  pur  
  sempre  
  nella  
  competenza  
  del  
  Tribunale  
  di  
  Milano;  
  inoltre, 
  ha  
  adeguatamente  
  argomentato  
  in  
  ordine  
  alla  
  mancanza  
  di  
  prova  
  della  
  residenza  
  all’estero  
  della  
  Lo.,  
  ritenendo 
  inidonea  
  a  
  tal  
  fine  
  la  
  mera  
  disponibilità  
  da  
  parte  
  della  
  medesima  
  di  
  un’abitazione  
  negli  
  Stati  
  Uniti.  
    
  La  
  decisione 
  impugnata  
  è,  
  pertanto,  
  conforme  
  al  
  principio  
  enunciato  
  da  
  questa  
  Corte 
  –  
  che  
  va  
  ribadito 
  -,  
  secondo  
  cui  
  la  
  domanda 
  di  
  scioglimento  
  del  
  matrimonio  
  civile  
  o  
  di  
  cessazione  
  degli  
  effetti  
  civili  
  del  
  matrimonio  
  concordatario  
  va  
  proposta,  
  ai 
  sensi  
  dell’art.  
  4,  
  comma  
  1,  
  della  
  legge  
  n.  
  898  
  del  
  1970  
  (nel  
  testo  
  introdotto  
  dall’art.  
  2,  
  comma  
  3-bis,  
  del  
  d.l.  
  14  
  marzo 
  2005,  
  n.  
  35,  
  convertito  
  in  
  legge,  
  con  
  modificazioni,  
  dall’art.  
  1,  
  comma  
  1,  
  della  
  legge  
  14  
  maggio  
  2005,  
  n.  
  80),  
  quale 
  risultante  
  a  
  seguito  
  della  
  dichiarazione  
  di  
  illegittimità  
  costituzionale  
  (sentenza  
  n.  
  169  
  del  
  2008),  
  al  
  tribunale  
  del 
  luogo  
  di  
  residenza  
  o  
  domicilio  
  del  
  coniuge  
  convenuto,  
  salva  
  l’applicazione  
  degli  
  ulteriori  
  criteri  
  previsti  
  in  
  via 
  subordinata dalla medesima norma (Cass. ord. n. 15186 del 2014)
  .  
  2.  
  –  
  Con  
  il  
  secondo  
  motivo  
  la  
  Lo.  
  ha  
  denunciato  
  la  
  violazione  
  e  
  falsa  
  applicazione  
  dell’art.  
  5,  
  comma  
  6,  
  legge  
  n. 
  898/1970,  
  per  
  avere  
  la  
  Corte  
  milanese  
  negato  
  il  
  suo  
  diritto  
  all’assegno  
  sulla  
  base  
  della  
  circostanza  
  che  
  lo  
  stesso  
  Gr. 
  non  
  avesse  
  mezzi  
  adeguati  
  per  
  conservare  
  l’alto  
  tenore  
  di  
  vita  
  matrimoniale,  
  dando  
  rilievo  
  decisivo  
  alla  
  riduzione  
  dei 
  suoi  
  redditi  
  rispetto  
  all’epoca  
  della  
  separazione,  
  mentre  
  avrebbe  
  dovuto  
  prima  
  verificare  
  la  
  indisponibilità,  
  da  
  parte 
  dell’ex  
  coniuge  
  richiedente,  
  di  
  mezzi  
  adeguati  
  a  
  conservare  
  il  
  tenore  
  di  
  vita  
  matrimoniale  
  o  
  la  
  sua  
  impossibilità  
  di 
  procurarseli  
  per  
  ragioni  
  oggettive.  
    
  Con  
  il  
  terzo  
  motivo  
  la  
  Lo.  
  ha  
  denunciato  
  vizio  
  di  
  motivazione,  
  per  
  avere  
  omesso 
  di  
  considerare  
  elementi  
  probatori  
  rilevanti  
  al  
  fine  
  di  
  dimostrare  
  la  
  sussistenza  
  del  
  diritto  
  all’assegno.  
    
  Con  
  il  
  quarto 
  motivo  
  la  
  ricorrente  
  ha  
  denunciato  
  la  
  violazione  
  degli  
  artt.  
  112  
  e  
  132  
  c.p.c,  
  per  
  avere  
  i  
  giudici  
  di  
  merito  
  escluso  
  il 
  diritto  
  all’assegno,  
  disconoscendo  
  la  
  rilevanza  
  della  
  sperequazione  
  tra  
  le  
  situazioni  
  reddituali  
  e  
  patrimoniali  
  degli  
  ex 
  coniugi  
  e  
  dando  
  erroneamente  
  rilievo  
  agli  
  accordi  
  raggiunti  
  in  
  sede  
  di  
  separazione  
  che,  
  al  
  contrario,  
  indicavano  
  la 
  disparità economica tra le parti e la mancanza di autosufficienza economica della Lo..  
  2.1.  
  –  
  Tali  
  motivi  
  sono  
  infondati.  
    
  Si  
  rende,  
  tuttavia,  
  necessaria,  
  ai  
  sensi  
  dell’art.  
  384,  
  quarto  
  comma,  
  cod.  
  proc. 
  civ.,  
  la  
  correzione  
  della  
  motivazione  
  in  
  diritto  
  della  
  sentenza  
  impugnata,  
  il  
  cui  
  dispositivo 
  –  
  come  
  si  
  vedrà  
  (cfr.  
  infra, 
  sub n. 2.6) – è conforme a diritto, in base alle considerazioni che seguono.  
  Una  
  volta  
  sciolto  
  il  
  matrimonio  
  civile  
  o  
  cessati  
  gli  
  effetti  
  civili  
  conseguenti  
  alla  
  trascrizione  
  del  
  matrimonio 
  religioso 
  –  
  sulla  
  base  
  dell’accertamento  
  giudiziale,  
  passato  
  in  
  giudicato,  
  che  
  «la  
  comunione  
  spirituale  
  e  
  materiale  
  tra 
  i  
  coniugi  
  non  
  può  
  essere  
  mantenuta  
  o  
  ricostituita  
  per  
  l’esistenza  
  di  
  una  
  delle  
  cause  
  previste  
  dall’articolo  
  3»  
  (cfr.  
  artt. 
  1  
  e  
  2,  
  mai  
  modificati,  
  nonché  
  l’art.  
  4,  
  commi  
  12  
  e  
  16,  
  della  
  legge  
  n.  
  898  
  del  
  1970)  
  -,  
  il  
  rapporto  
  matrimoniale  
  si 
  estingue  
  definitivamente  
  sul  
  piano  
  sia  
  dello  
  status  
  personale  
  dei  
  coniugi,  
  i  
  quali  
  devono  
  perciò  
  considerarsi  
  da  
  allora 
  in  
  poi 
  “persone  
  singole”,  
  sia  
  dei  
  loro  
  rapporti  
  economico-patrimoniali  
  (art.  
  191,  
  comma  
  1,  
  cod.  
  civ.)  
  e,  
  in  
  particolare, 
  del  
  reciproco  
  dovere  
  di  
  assistenza  
  morale  
  e  
  materiale  
  (art.  
  143,  
  comma  
  2,  
  cod.  
  civ.),  
  fermo  
  ovviamente,  
  in  
  presenza  
  di 
  figli,  
  l’esercizio  
  della  
  responsabilità  
  genitoriale,  
  con  
  i  
  relativi  
  doveri  
  e  
  diritti,  
  da  
  parte  
  di  
  entrambi  
  gli  
  ex  
  coniugi  
  (cfr. 
  artt. 317, comma 2, e da 337-bis a 337-octies cod. civ.).
    
    
  Perfezionatasi  
  tale  
  fattispecie  
  estintiva  
  del  
  rapporto  
  matrimoniale,  
  il  
  diritto  
  all’assegno  
  di  
  divorzio  
  –  
  previsto 
  dall’art.  
  5,  
  comma  
  6,  
  della  
  legge  
  n.  
  898  
  del  
  1970,  
  nel  
  testo  
  sostituito  
  dall’art.  
  10  
  della  
  legge  
  n.  
  74  
  del  
  1987  
  –  
  è 
  condizionato   
  dal   
  previo   
  riconoscimento   
  di   
  esso   
  in   
  base   
  all’accertamento   
  giudiziale   
  della   
  mancanza   
  di   
  «mezzi 
  adeguati»
    
  dell’ex  
  coniuge  
  richiedente  
  l’assegno  
  o,  
  comunque,  
  dell’impossibilità  
  dello  
  stesso  
  «di  
  procurarseli  
  per 
  ragioni  
  oggettive».  
    
  La  
  piana  
  lettura  
  di  
  tale  
  comma  
  6  
  dell’art.  
  5  
  –  
  «
  Con  
  la  
  sentenza  
  che  
  pronuncia  
  lo  
  scioglimento  
  o  
  la 
  cessazione  
  degli  
  effetti  
  civili  
  del  
  matrimonio,  
  il  
  tribunale,  
  tenuto  
  conto  
  delle  
  condizioni  
  dei  
  coniugi,  
  delle  
  ragioni  
  della 
  decisione,  
  del  
  contributo  
  personale  
  ed  
  economico  
  dato  
  da  
  ciascuno  
  alla  
  conduzione  
  familiare  
  ed  
  alla  
  formazione  
  del 
  patrimonio  
  di  
  ciascuno  
  o  
  di  
  quello  
  comune,  
  del  
  reddito  
  di  
  entrambi,  
  e  
  valutati  
  tutti  
  i  
  suddetti  
  elementi  
  anche  
  in  
  rapporto 
  alla  
  durata  
  del  
  matrimonio  
  dispone  
  l’obbligo  
  per  
  un  
  coniuge  
  di  
  somministrare  
  periodicamente  
  a  
  favore  
  dell’altro  
  un 
  assegno  
  quando  
  quest’ultimo  
  non  
  ha  
  mezzi  
  adeguati  
  o  
  comunque  
  non  
  può  
  procurarseli  
  per  
  ragioni  
  oggettive
  »  
  –  
  mostra 
  con  
  evidenza  
  che  
  la  
  sua  
  stessa  
  “struttura”  
  prefigura  
  un  
  giudizio  
  nitidamente  
  e  
  rigorosamente  
  distinto  
  in  
  due  
  fasi
  ,  
  il 
  cui  
  oggetto  
  è  
  costituito,  
  rispettivamente,  
  dall’eventuale  
  riconoscimento  
  del  
  diritto  
  (fase  
  dell’
  an  
  debeatur
  )  
  e  
  –  
  solo 
  all’esito  
  positivo  
  di  
  tale  
  prima  
  fase 
  –  
  dalla  
  determinazione  
  quantitativa  
  dell’assegno  
  (fase  
  del  
  quantum  
  debeatur
  ).  
    
  La 
  complessiva  
  ratio  
  dell’art.  
  5,  
  comma  
  6,  
  della  
  legge  
  n.  
  898  
  del  
  1970  
  (diritto  
  condizionato  
  all’assegno  
  di  
  divorzio  
  e  
  – 
  riconosciuto   
  tale   
  diritto  
  -determinazione   
  e   
  prestazione   
  dell’assegno)   
  ha   
  fondamento   
  costituzionale   
  nel   
  dovere 
  inderogabile  
  di  
  «solidarietà  
  economica»  
  (art.  
  2,  
  in  
  relazione  
  all’art.  
  23,  
  Cost.),  
  il  
  cui  
  adempimento  
  è  
  richiesto  
  ad 
  entrambi  
  gli  
  ex  
  coniugi,  
  quali  
  “persone  
  singole”,  
  a  
  tutela  
  della  
  “persona”  
  economicamente  
  più  
  debole  
  (cosiddetta 
  “solidarietà  
  post-coniugale”):  
  sta  
  precisamente  
  in  
  questo  
  duplice  
  fondamento  
  costituzionale  
  sia  
  la  
  qualificazione 
  della  
  natura  
  dell’assegno  
  di  
  divorzio  
  come  
  esclusivamente 
  “assistenziale”  
  in  
  favore  
  dell’ex  
  coniuge  
  economicamente 
  più  
  debole  
  (art.  
  2  
  Cost.)  
  –  
  natura  
  che  
  in  
  questa  
  sede  
  va  
  ribadita  
  -,  
  sia  
  la  
  giustificazione  
  della  
  doverosità  
  della  
  sua 
  «prestazione»  
  (art.  
  23  
  Cost.).  
    
  Sicché,  
  se  
  il  
  diritto  
  all’assegno  
  di  
  divorzio  
  è  
  riconosciuto  
  alla 
  “persona”  
  dell’ex  
  coniuge 
  nella  
  fase  
  dell’an  
  debeatur,  
  l’assegno  
  è  
  “determinato”  
  esclusivamente  
  nella  
  successiva  
  fase  
  del  
  quantum  
  debeatur, 
  non  
  già 
  “in  
  ragione”  
  del  
  rapporto  
  matrimoniale  
  ormai  
  definitivamente  
  estinto,  
  bensì 
  “in  
  considerazione”  
  di  
  esso  
  nel 
  corso  
  di  
  tale  
  seconda  
  fase  
  (cfr.  
  l’incipit  
  del  
  comma  
  6  
  dell’art.  
  5  
  cit:  
  «[….]  
  il  
  tribunale,  
  tenuto  
  conto  
  [….]»),  
  avendo  
  lo 
  stesso  
  rapporto,  
  ancorché  
  estinto  
  pure  
  nella  
  sua  
  dimensione  
  economico-patrimoniale,  
  caratterizzato,  
  anche  
  sul 
  piano  
  giuridico,  
  un  
  periodo  
  più  
  o  
  meno  
  lungo  
  della  
  vita  
  in  
  comune  
  («la  
  comunione  
  spirituale  
  e  
  materiale»)  
  degli  
  ex 
  coniugi.
  Deve,  
  peraltro,  
  sottolinearsi  
  che  
  il  
  carattere  
  condizionato  
  del  
  diritto  
  all’assegno  
  di  
  divorzio  
  –  
  comportando 
  ovviamente  
  la  
  sua  
  negazione  
  in  
  presenza  
  di  
  «mezzi  
  adeguati»  
  dell’ex  
  coniuge  
  richiedente  
  o  
  delle  
  effettive  
  possibilità 
  «di  
  procurarseli»,  
  vale  
  a  
  dire  
  della  
  “indipendenza  
  o  
  autosufficienza  
  economica”
    
  dello  
  stesso  
  –  
  comporta  
  altresì  
  che, 
  in   
  carenza   
  di   
  ragioni   
  di   
  «solidarietà   
  economica»,   
  l’eventuale   
  riconoscimento   
  del   
  diritto   
  si   
  risolverebbe   
  in   
  una 
  locupletazione  
  illegittima,  
  in  
  quanto  
  fondata  
  esclusivamente  
  sul  
  fatto  
  della  
  “mera  
  preesistenza”  
  di  
  un  
  rapporto 
  matrimoniale  
  ormai  
  estinto,  
  ed  
  inoltre  
  di  
  durata  
  tendenzialmente  
  sine  
  die:  
  il  
  discrimine  
  tra  
  «solidarietà  
  economica» 
  ed   
  illegittima   
  locupletazione   
  sta,   
  perciò,   
  proprio   
  nel   
  giudizio   
  sull’esistenza,   
  o   
  no,   
  delle   
  condizioni   
  del   
  diritto 
  all’assegno,  
  nella  
  fase  
  dell’an  
  debeatur.  
    
  Tali  
  precisazioni  
  preliminari  
  si  
  rendono  
  necessarie,  
  perché  
  non  
  di  
  rado  
  è 
  dato  
  rilevare  
  nei  
  provvedimenti  
  giurisdizionali  
  aventi  
  ad  
  oggetto  
  l’assegno  
  di  
  divorzio  
  una  
  indebita  
  commistione  
  tra 
  le  
  due 
  “fasi”  
  del  
  giudizio  
  e  
  tra  
  i  
  relativi  
  accertamenti  
  che,  
  essendo  
  invece  
  pertinenti  
  esclusivamente  
  all’una  
  o  
  all’altra 
  fase, debbono per ciò stesso essere effettuati secondo l’ordine progressivo normativamente stabilito.  
  2.2.  
  –  
  Tanto  
  premesso,  
  decisiva  
  è,  
  pertanto  
  –  
  ai  
  fini  
  del  
  riconoscimento,  
  o  
  no,  
  del  
  diritto  
  all’assegno  
  di  
  divorzio 
  all’ex   
  coniuge   
  richiedente   
  -,   
  l’interpretazione   
  del   
  sintagma   
  normativo   
  «mezzi   
  adeguati»   
  e   
  della   
  disposizione 
  “impossibilità    
  di    
  procurarsi    
  mezzi    
  adeguati    
  per    
  ragioni    
  oggettive”    
  nonché,    
  in    
  particolare    
  e    
  soprattutto, 
  l’individuazione  
  dell’indispensabile  
  “parametro  
  di  
  riferimento”,  
  al  
  quale  
  rapportare  
  l’”adeguatezza-inadeguatezza” 
  dei  
  «mezzi»  
  del  
  richiedente  
  l’assegno  
  e,  
  inoltre,  
  la  
  “possibilità-impossibilità”  
  dello  
  stesso  
  di  
  procurarseli.  
    
  Ribadito, 
  in  
  via  
  generale 
  –  
  salve  
  le  
  successive  
  precisazioni  
  (v.,  
  infra,  
  n.  
  2.4) 
  -,  
  che  
  grava  
  su  
  quest’ultimo  
  l’onere  
  di  
  dimostrare  
  la 
  sussistenza  
  delle  
  condizioni  
  cui  
  è  
  subordinato  
  il  
  riconoscimento  
  del  
  relativo  
  diritto,  
  è  
  del  
  tutto  
  evidente  
  che  
  il 
  concreto  
  accertamento,  
  nelle  
  singole  
  fattispecie,  
  dell’adeguatezza-inadeguatezza”  
  di  
  «mezzi»  
  e  
  della  
  “possibilità-
  impossibilità” di procurarseli può dar luogo a due ipotesi: 
  1)  
  se  
  l’ex  
  coniuge  
  richiedente  
  l’assegno  
  possiede  
  «mezzi  
  adeguati»  
  o  
  è  
  effettivamente  
  in  
  grado  
  di  
  procurarseli,  
  il 
  diritto deve essergli negato tout court; 
  2)  
  se,  
  invece,  
  lo  
  stesso  
  dimostra  
  di  
  non  
  possedere  
  «mezzi  
  adeguati»  
  e  
  prova  
  anche  
  che  
  «non  
  può  
  procurarseli  
  per 
  ragioni  
  oggettive»,  
  il  
  diritto  
  deve  
  essergli  
  riconosciuto.  
    
  È  
  noto  
  che,  
  sia  
  prima  
  sia  
  dopo  
  le  
  fondamentali  
  sentenze  
  delle 
  Sezioni  
  Unite  
  nn.  
  11490  
  e  
  11492  
  del  
  29  
  novembre  
  1990  
  (cfr.  
  ex  
  plurimis,  
  rispettivamente,  
  le  
  sentenze  
  nn.  
  3341  
  del 
  1978  
  e  
  4955  
  del  
  1989,  
  e  
  nn.  
  11686  
  del  
  2013  
  e  
  11870  
  del  
  2015),  
  il  
  parametro  
  di  
  riferimento  
  –  
  al  
  quale  
  rapportare 
  l’adeguatezza-inadeguatezza”  
  dei  
  «mezzi»  
  del  
  richiedente  
  –  
  è  
  stato  
  costantemente  
  individuato  
  da  
  questa  
  Corte  
  nel 
  «tenore  
  di  
  vita  
  analogo  
  a  
  quello  
  avuto  
  in  
  costanza  
  di  
  matrimonio,  
  o  
  che  
  poteva  
  legittimamente  
  e  
  ragionevolmente 
  fondarsi  
  su  
  aspettative  
  maturate  
  nel  
  corso  
  del  
  matrimonio  
  stesso,  
  fissate  
  al  
  momento  
  del  
  divorzio»  
  (così  
  la  
  sentenza 
  delle  
  S.U.  
  n.  
  11490  
  del  
  1990,  
  pag.  
  24).  
    
  Sull’attuale  
  rilevanza  
  del  
  “tenore  
  di  
  vita  
  matrimoniale”,  
  come  
  parametro 
  “condizionante”  
  e  
  decisivo  
  nel  
  giudizio  
  sul  
  riconoscimento  
  del  
  diritto  
  all’assegno,  
  non  
  incide  
  –  
  come  
  risulterà 
  chiaramente  
  alla  
  luce  
  delle  
  successive  
  osservazioni  
  –  
  la  
  mera  
  possibilità  
  di  
  operarne  
  in  
  concreto  
  un  
  bilanciamento 
  con  
  altri  
  criteri,  
  intesi  
  come  
  fattori  
  di  
  moderazione  
  e  
  diminuzione  
  di  
  una  
  somma  
  predeterminata  
  in  
  astratto  
  sulla 
  base  
  di  
  quel  
  parametro.  
    
  A  
  distanza  
  di  
  quasi  
  ventisette  
  anni,  
  il  
  Collegio  
  ritiene  
  tale  
  orientamento,  
  per  
  le  
  molteplici 
  ragioni che seguono, non più attuale, e ciò lo esime dall’osservanza dell’art. 374, terzo comma, cod. proc. civ.  
  A)  
  Il  
  parametro  
  del  
  «tenore  
  di  
  vita»  
  –  
  se  
  applicato  
  anche  
  nella  
  fase  
  dell’
  an  
  debeatur
    
  –  
  collide  
  radicalmente  
  con 
  la  
  natura  
  stessa  
  dell’istituto  
  del  
  divorzio  
  e  
  con  
  i  
  suoi  
  effetti  
  giuridici:  
  infatti,  
  come  
  già  
  osservato  
  (supra,  
  sub  
  n.  
  2.1), 
  con  
  la  
  sentenza  
  di  
  divorzio  
  il  
  rapporto  
  matrimoniale  
  si  
  estingue  
  sul  
  piano  
  non  
  solo  
  personale  
  ma  
  anche  
  economico-
  patrimoniale  
  –  
  a  
  differenza  
  di  
  quanto  
  accade  
  con  
  la  
  separazione  
  personale,  
  che  
  lascia  
  in  
  vigore,  
  seppure  
  in  
  forma 
  attenuata,   
  gli   
  obblighi   
  coniugali   
  di   
  cui   
  all’art.   
  143   
  cod.   
  civ.   
  -,   
  sicché   
  ogni   
  riferimento   
  a   
  tale   
  rapporto   
  finisce 
  illegittimamente   
  con   
  il   
  ripristinarlo   
  -sia   
  pure   
  limitatamente   
  alla   
  dimensione   
  economica   
  del   
  “tenore   
  di   
  vita 
  matrimoniale”  
  ivi  
  condotto  
  –  
  in  
  una  
  indebita  
  prospettiva,  
  per  
  così  
  dire,  
  di  
  “ultrattività”  
  del  
  vincolo  
  matrimoniale.  
   
  Sono  
  oltremodo  
  significativi  
  al  
  riguardo:  
  1)  
  il  
  brano  
  della  
  citata  
  sentenza  
  delle  
  Sezioni  
  Unite  
  n.  
  11490  
  del  
  1990, 
  secondo  
  cui  
  «[….]  
  è  
  utile  
  sottolineare  
  che  
  tutto  
  il  
  sistema  
  della  
  legge  
  riformata  
  [….]  
  privilegia  
  le  
  conseguenze  
  di  
  una 
  perdurante  
  [….]  
  efficacia  
  sul  
  piano  
  economico  
  di  
  un  
  vincolo  
  che  
  sul  
  piano  
  personale  
  è  
  stato  
  disciolto  
  [….]»  
  (pag.  
  38); 
  2)  
  l’affermazione  
  della  
  “funzione  
  di  
  riequilibrio”  
  delle  
  condizioni  
  economiche  
  degli  
  ex  
  coniugi  
  attribuita  
  da  
  tale 
  sentenza  
  all’assegno  
  di  
  divorzio:  
  «[….]  
  poiché  
  il  
  giudizio  
  sull’an  
  del  
  diritto  
  all’assegno  
  è  
  basato  
  sulla  
  determinazione 
  di  
  un  
  quantum  
  idoneo  
  ad  
  eliminare  
  l’apprezzabile  
  deterioramento  
  delle  
  condizioni  
  economiche  
  del  
  coniuge  
  che,  
  in 
  via   
  di   
  massima,   
  devono   
  essere   
  ripristinate,   
  in   
  modo   
  da   
  ristabilire   
  un   
  certo   
  equilibrio   
  [….],   
  è   
  necessaria   
  una 
  determinazione  
  quantitativa  
  (sempre  
  in  
  via  
  di  
  massima)  
  delle  
  somme  
  sufficienti  
  a  
  superare  
  l’inadeguatezza  
  dei 
  mezzi  
  dell’avente  
  diritto,  
  che  
  costituiscono  
  il  
  limite  
  o  
  tetto  
  massimo  
  della  
  misura  
  dell’assegno»  
  (pagg.  
  24-25:  
  si  
  noti 
  l’evidente commistione tra gli oggetti delle due fasi del giudizio).  
  B)   
  La   
  scelta   
  di   
  detto   
  parametro   
  implica   
  l’omessa   
  considerazione   
  che   
  il   
  diritto   
  all’assegno   
  di   
  divorzio   
  è 
  eventualmente  
  riconosciuto  
  all’ex  
  coniuge  
  richiedente,  
  nella  
  fase  
  dell’an  
  debeatur,  
  esclusivamente  
  come  
  “persona 
  singola”  
  e  
  non  
  già  
  come  
  (ancora)  
  “parte”  
  di  
  un  
  rapporto  
  matrimoniale  
  ormai  
  estinto  
  anche  
  sul  
  piano  
  economico-
  patrimoniale,  
  avendo  
  il  
  legislatore  
  della  
  riforma  
  del  
  1987  
  informato  
  la  
  disciplina  
  dell’assegno  
  di  
  divorzio,  
  sia  
  pure 
  per  
  implicito  
  ma  
  in  
  modo  
  inequivoco,  
  al  
  principio  
  di  
  “autoresponsabilità”  
  economica  
  degli  
  ex  
  coniugi  
  dopo  
  la 
  pronuncia di divorzio.  
  C)  
  La  
  “necessaria  
  considerazione”,  
  da  
  parte  
  del  
  giudice  
  del  
  divorzio,  
  del  
  preesistente  
  rapporto  
  matrimoniale 
  anche  
  nella  
  sua  
  dimensione  
  economico-patrimoniale  
  («[….]  
  il  
  tribunale,  
  tenuto  
  conto  
  delle  
  condizioni  
  dei  
  coniugi, 
  delle  
  ragioni  
  della  
  decisione,  
  del  
  contributo  
  personale  
  ed  
  economico  
  dato  
  da  
  ciascuno  
  alla  
  conduzione  
  familiare
    
  ed 
  alla  
  formazione  
  del  
  patrimonio  
  di  
  ciascuno  
  o  
  di  
  quello  
  comune,  
  del  
  reddito  
  di  
  entrambi,  
  e  
  valutati  
  tutti  
  i  
  suddetti 
  elementi  
  anche  
  in  
  rapporto  
  alla  
  durata  
  del  
  matrimonio  
  [….]»)  
  è  
  normativamente  
  ed  
  esplicitamente  
  prevista  
  soltanto 
  per  
  l’eventuale  
  fase  
  del  
  giudizio  
  avente  
  ad  
  oggetto  
  la  
  determinazione  
  dell’assegno  
  (quantum  
  debeatur)
  ,  
  vale  
  a  
  dire 
  – 
  come  
  già  
  sottolineato  
  –  
  soltanto  
  dopo  
  l’esito  
  positivo  
  della  
  fase  
  precedente  
  (an  
  debeatur),  
  conclusasi  
  cioè  
  con  
  il 
  riconoscimento del diritto all’assegno.  
  D)  
  Il  
  parametro  
  del  
  «tenore  
  di  
  vita»  
  induce  
  inevitabilmente  
  ma  
  inammissibilmente,  
  come  
  già  
  rilevato  
  (cfr., 
  supra,  
  sub  
  n.  
  2.1),  
  una  
  indebita  
  commistione  
  tra  
  le  
  predette  
  due  
  “fasi”  
  del  
  giudizio  
  e  
  tra  
  i  
  relativi  
  accertamenti.  
    
  È 
  significativo,  
  al  
  riguardo,  
  quanto  
  affermato  
  dalle  
  Sezioni  
  Unite,  
  sempre  
  nella  
  sentenza  
  n.  
  11490  
  del  
  1990:  
  «[….]  
  lo 
  scopo  
  di  
  evitare  
  rendite  
  parassitarie  
  ed  
  ingiustificate  
  proiezioni  
  patrimoniali  
  di  
  un  
  rapporto  
  personale  
  sciolto  
  può 
  essere   
  raggiunto   
  utilizzando   
  in   
  maniera   
  prudente,   
  in   
  una   
  visione   
  ponderata   
  e   
  globale,   
  tutti   
  i   
  criteri   
  di 
  quantificazione  
  supra  
  descritti,  
  che  
  sono  
  idonei  
  ad  
  evitare  
  siffatte  
  rendite  
  ingiustificate,  
  nonché  
  a  
  responsabilizzare 
  il   
  coniuge   
  che   
  pretende   
  l’assegno,   
  imponendogli   
  di   
  attivarsi   
  per   
  realizzare   
  la   
  propria   
  personalità,   
  nella   
  nuova 
  autonomia di vita, alla stregua di un criterio di dignità sociale [….]».  
  E)  
  Le  
  menzionate  
  sentenze  
  delle  
  Sezioni  
  Unite  
  del  
  1990  
  si  
  fecero  
  carico  
  della  
  necessità  
  di  
  contemperamento 
  dell’esigenza  
  di  
  superare  
  la  
  concezione  
  patrimonialistica  
  del  
  matrimonio  
  «inteso  
  come  
  “sistemazione  
  definitiva
  ”, 
  perché  
  il  
  divorzio  
  è  
  stato  
  assorbito  
  dal  
  costume  
  sociale»  
  (così  
  la  
  sentenza  
  n.  
  11490  
  del  
  1990)  
  con  
  l’
  esigenza  
  di  
  non 
  turbare  
  un  
  costume  
  sociale  
  ancora  
  caratterizzato  
  dalla  
  «attuale  
  esistenza  
  di  
  modelli  
  di  
  matrimonio  
  più  
  tradizionali
  , 
  anche  
  perché  
  sorti  
  in  
  epoca  
  molto  
  anteriore  
  alla  
  riforma»,  
  con  
  ciò  
  spiegando  
  la  
  preferenza  
  accordata  
  ad  
  un  
  indirizzo 
  interpretativo  
  che  
  «meno  
  traumaticamente  
  rompe[sse]  
  con  
  la  
  passata  
  tradizione»  
  (così  
  ancora  
  la  
  sentenza  
  n.  
  11490 
  del   
  1990).   
  Questa   
  esigenza,   
  tuttavia,   
  si   
  è   
  molto   
  attenuata   
  nel   
  corso   
  degli   
  anni
  ,   
  essendo   
  ormai   
  generalmente 
  condiviso  
  nel  
  costume  
  sociale  
  il  
  significato  
  del  
  matrimonio  
  come  
  atto  
  di  
  libertà  
  e  
  di  
  autoresponsabilità,  
  nonché 
  come  
  luogo  
  degli  
  affetti  
  e  
  di  
  effettiva  
  comunione  
  di  
  vita,  
  in  
  quanto  
  tale  
  dissolubile  
  (matrimonio  
  che  
  –  
  oggi  
  –  
  è 
  possibile  
  “sciogliere”,  
  previo  
  accordo,  
  con  
  una  
  semplice  
  dichiarazione  
  delle  
  parti  
  all’ufficiale  
  dello  
  stato  
  civile,  
  a 
  norma  
  dell’art.  
  12  
  del  
  D.L.  
  12  
  settembre  
  2014,  
  n.  
  132,  
  convertito  
  in  
  legge,  
  con  
  modificazioni,  
  dall’art.  
  1,  
  comma  
  1, 
  della  
  legge  
  10  
  novembre  
  2014,  
  n.  
  162).  
    
  Ed  
  è  
  coerente  
  con  
  questo  
  approdo  
  sociale  
  e  
  legislativo  
  l’orientamento  
  di 
  questa  
  Corte,  
  secondo  
  cui  
  la  
  formazione  
  di  
  una  
  famiglia  
  di  
  fatto  
  da  
  parte  
  del  
  coniuge  
  beneficiario  
  dell’assegno 
  divorzile  
  è  
  espressione  
  di  
  una  
  scelta  
  esistenziale,  
  libera  
  e  
  consapevole,  
  che  
  si  
  caratterizza  
  per  
  l’assunzione  
  piena  
  del 
  rischio  
  di  
  una  
  eventuale  
  cessazione  
  del  
  rapporto  
  e,  
  quindi,  
  esclude  
  ogni  
  residua  
  solidarietà  
  postmatrimoniale  
  da 
  parte  
  dell’altro  
  coniuge,  
  il  
  quale  
  non  
  può  
  che  
  confidare  
  nell’esonero  
  definitivo  
  da  
  ogni  
  obbligo  
  (cfr.  
  le  
  sentenze  
  nn. 
  6855  
  del  
  2015  
  e  
  2466  
  del  
  2016).  
  In  
  proposito,  
  un’interpretazione  
  delle  
  norme  
  sull’assegno  
  divorzile  
  che  
  producano 
  l’effetto  
  di  
  procrastinare  
  a  
  tempo  
  indeterminato  
  il  
  momento  
  della  
  recisione  
  degli  
  effetti  
  economico-patrimoniali  
  del 
  vincolo   
  coniugale,   
  può   
  tradursi   
  in   
  un   
  ostacolo   
  alla   
  costituzione   
  di   
  una   
  nuova   
  famiglia   
  successivamente   
  alla 
  disgregazione  
  del  
  primo  
  gruppo  
  familiare,  
  in  
  violazione  
  di  
  un  
  diritto  
  fondamentale  
  dell’individuo  
  (cfr.  
  Cass.  
  n. 
  6289/2014)   
  che   
  è   
  ricompreso   
  tra   
  quelli   
  riconosciuti   
  dalla   
  Cedu   
  (art.   
  12)   
  e   
  dalla   
  Carta   
  dei   
  diritti   
  fondamentali 
  dell’Unione  
  Europea  
  (art.  
  9).  
  Si  
  deve  
  quindi  
  ritenere  
  che  
  non  
  sia  
  configurabile  
  un  
  interesse  
  giuridicamente  
  rilevante 
  o   
  protetto   
  dell’ex   
  coniuge   
  a   
  conservare   
  il   
  tenore   
  di   
  vita   
  matrimoniale.   
  L’interesse   
  tutelato   
  con   
  l’attribuzione 
  dell’assegno   
  divorzile  
  -come   
  detto  
  –   
  non   
  è   
  il   
  riequilibrio   
  delle   
  condizioni   
  economiche   
  degli   
  ex   
  coniugi,   
  ma   
  il 
  raggiungimento  
  della  
  indipendenza  
  economica,  
  in  
  tal  
  senso  
  dovendo  
  intendersi  
  la  
  funzione  
  –  
  esclusivamente  
  – 
  assistenziale dell’assegno divorzile.  
  F)  
  Al  
  di  
  là  
  delle  
  diverse  
  opinioni  
  che  
  si  
  possono  
  avere  
  sulla  
  rilevanza  
  ermeneutica  
  dei  
  lavori  
  preparatori  
  della 
  legge  
  n.  
  74  
  del  
  1987  
  (che  
  inserì  
  nell’art.  
  5  
  il  
  fondamentale  
  riferimento  
  alla  
  mancanza  
  di  
  “mezzi  
  adeguati”  
  e  
  alla 
  “impossibilità  
  di  
  procurarseli”)  
  in  
  senso  
  innovativo  
  (come  
  sosteneva  
  una  
  parte  
  della  
  dottrina  
  che  
  imputava  
  alla 
  giurisprudenza   
  precedente   
  di   
  avere   
  favorito   
  una   
  concezione   
  patrimonialistica   
  della   
  condizione   
  coniugale)   
  o 
  sostanzialmente  
  conservativo  
  del  
  precedente  
  assetto  
  (si  
  legga  
  in  
  tal  
  senso  
  il  
  brano  
  della  
  sentenza  
  delle  
  Sezioni  
  Unite 
  n.  
  11490/1990  
  che  
  considerava  
  non  
  giustificato  
  «l’abbandono  
  di  
  quella  
  parte  
  dei  
  criteri  
  interpretativi  
  adottati  
  in 
  passato  
  per  
  il  
  giudizio  
  sull’esistenza  
  del  
  diritto  
  all’assegno»),  
  non  
  v’è  
  dubbio  
  che  
  chiara  
  era  
  la  
  volontà  
  del  
  legislatore 
  del  
  1987  
  di  
  evitare  
  che  
  il  
  giudizio  
  sulla  
  “adeguatezza  
  dei  
  mezzi”  
  fosse  
  riferito  
  «alle  
  condizioni  
  del  
  soggetto  
  pagante» 
  anziché  
  «alle  
  necessità  
  del  
  soggetto  
  creditore»:  
  ciò  
  costituiva  
  «un  
  profilo  
  sul  
  quale,  
  al  
  di  
  là  
  di  
  quelle  
  che  
  possono 
  essere  
  le  
  convinzioni  
  personali  
  del  
  relatore,  
  qui  
  irrilevanti,  
  si  
  è  
  realizzata  
  la  
  convergenza  
  della  
  Commissione»  
  (cfr. 
  intervento   
  del   
  relatore,   
  sen.   
  N.   
  Lipari,   
  in   
  Assemblea   
  del   
  Senato,   
  17   
  febbraio   
  1987,   
  561   
  sed.   
  pom.,   
  resoconto 
  stenografico,  
  pag.  
  23).  
  Nel  
  giudizio  
  sull’an  
  debeatur,  
  infatti,  
  non  
  possono  
  rientrare  
  valutazioni  
  di  
  tipo  
  comparativo 
  tra  
  le  
  condizioni  
  economiche  
  degli  
  ex  
  coniugi,  
  dovendosi  
  avere  
  riguardo  
  esclusivamente  
  alle  
  condizioni  
  del  
  soggetto 
  richiedente  
  l’assegno  
  successivamente  
  al  
  divorzio
  .  
    
  Le  
  osservazioni  
  critiche  
  sinora  
  esposte  
  non  
  sono  
  scalfite:  
    
  a)  
  né 
  dalla  
  sentenza  
  della  
  Corte  
  costituzionale  
  n.  
  11  
  del  
  2015,  
  che  
  ha  
  sostanzialmente  
  recepito  
  l’orientamento  
  in  
  questa 
  sede  
  non  
  condiviso,  
  senza  
  peraltro  
  prendere  
  posizione  
  sulla  
  sostanza  
  delle  
  censure  
  formulate  
  dal  
  giudice  
  rimettente, 
  riducendo  
  quella  
  sollevata  
  ad  
  una  
  mera  
  questione  
  di  
  «erronea  
  interpretazione»  
  dell’art.  
  5,  
  comma  
  6,  
  della  
  legge  
  n. 
  898  
  del  
  1970  
  e  
  omettendo  
  di  
  considerare  
  che,  
  in  
  una  
  precedente  
  occasione,  
  nell’escludere  
  la  
  completa  
  equiparabilità 
  del   
  trattamento   
  economico   
  del   
  coniuge   
  divorziato   
  a   
  quello   
  del   
  coniuge   
  separato,   
  aveva   
  affermato   
  che   
  «[….] 
  basterebbe  
  rilevare  
  che  
  per  
  il  
  divorziato  
  l’assegno  
  di  
  mantenimento  
  non  
  è  
  correlato  
  al  
  tenore  
  di  
  vita  
  matrimoniale» 
  (sentenza  
  n.  
  472  
  del  
  1989,  
  n.  
  3  
  del  
  Considerato  
  in  
  diritto);  
    
  b)  
  e  
  neppure  
  dalle  
  disposizioni  
  di  
  cui  
  al  
  comma  
  9  
  dello 
  stesso  
  art.  
  5  
  –  
  secondo  
  cui:  
  «I  
  coniugi  
  devono  
  presentare  
  all’udienza  
  di  
  comparizione  
  avanti  
  al  
  presidente  
  del 
  tribunale  
  la  
  dichiarazione  
  personale  
  dei  
  redditi  
  e  
  ogni  
  documentazione  
  relativa  
  ai  
  loro  
  redditi  
  e  
  al  
  loro  
  patrimonio 
  personale  
  e  
  comune.  
  In  
  caso  
  di  
  contestazioni  
  il  
  tribunale  
  dispone  
  indagini  
  sui  
  redditi,  
  sui  
  patrimoni  
  e  
  sull’effettivo 
  tenore  
  di  
  vita,  
  valendosi,  
  se  
  del  
  caso,  
  anche  
  della  
  polizia  
  tributaria» 
  -,  
  in  
  quanto  
  il  
  parametro  
  dell’«effettivo  
  tenore  
  di 
  vita»  
  è  
  richiamato  
  esclusivamente  
  al  
  fine  
  dell’accertamento  
  dell’effettiva  
  consistenza  
  reddituale  
  e  
  patrimoniale  
  dei 
  coniugi:  
  infatti  
  –  
  se  
  il  
  primo  
  periodo  
  è  
  dettato  
  al  
  solo  
  fine  
  di  
  consentire  
  al  
  presidente  
  del  
  tribunale,  
  nell’udienza  
  di 
  comparizione  
  dei  
  coniugi,  
  di  
  dare  
  su  
  base  
  documentale  
  «i  
  provvedimenti  
  temporanei  
  e  
  urgenti  
  [anche  
  d’ordine 
  economico]  
  che  
  reputa  
  opportuni  
  nell’interesse  
  dei  
  coniugi  
  e  
  della  
  prole»  
  (art.  
  4,  
  comma  
  8)  
  -,  
  il  
  secondo  
  periodo 
  invece,  
  che  
  presuppone  
  la  
  «contestazione»  
  dei  
  documenti  
  prodotti  
  (concernenti  
  i  
  rispettivi  
  redditi  
  e  
  patrimoni), 
  nell’affidare  
  al  
  «tribunale»  
  le  
  relative  
  «indagini»,  
  cioè  
  l’accertamento  
  di  
  tali  
  componenti  
  economico-fiscali,  
  richiama 
  il  
  parametro  
  dell’«effettivo  
  tenore  
  di  
  vita»  
  al  
  fine,  
  non  
  già  
  del  
  riconoscimento  
  del  
  diritto  
  all’assegno  
  di  
  divorzio  
  al 
  “singolo”  
  ex  
  coniuge  
  che  
  lo  
  fa  
  valere  
  ma,  
  appunto,  
  dell’accertamento  
  circa  
  l’attendibilità  
  di  
  detti  
  documenti  
  e 
  dell’effettiva  
  consistenza  
  dei  
  rispettivi  
  redditi  
  e  
  patrimoni  
  e,  
  quindi,  
  del  
  “giudizio  
  comparativo”  
  da  
  effettuare  
  nella 
  fase   
  del   
  quantum   
  debeatur.   
  È   
  significativo,   
  al   
  riguardo,   
  che   
  il   
  riferimento   
  agli   
  elementi   
  del   
  “reddito”   
  e   
  del 
  “patrimonio”  
  degli  
  ex  
  coniugi  
  è  
  contenuto  
  proprio  
  nella  
  prima  
  parte  
  del  
  comma  
  6  
  dell’art.  
  5  
  relativa  
  a  
  tale  
  fase  
  del 
  giudizio.  
  2.3.   
  –   
  Le   
  precedenti   
  osservazioni   
  critiche   
  verso   
  il   
  parametro   
  del   
  «tenore   
  di   
  vita»   
  richiedono,   
  pertanto, 
  l’individuazione  
  di  
  un  
  parametro  
  diverso,  
  che  
  sia  
  coerente  
  con  
  le  
  premesse.  
  Il  
  Collegio  
  ritiene  
  che  
  un  
  parametro  
  di 
  riferimento   
  siffatto   
  –   
  cui   
  rapportare   
  il   
  giudizio   
  sull’   
  “adeguatezza-inadeguatezza”   
  dei   
  «mezzi»   
  dell’ex   
  coniuge 
  richiedente   
  l’assegno   
  di   
  divorzio   
  e   
  sulla   
  “possibilità-impossibilità   
  «per   
  ragioni   
  oggettive»”   
  dello   
  stesso   
  di 
  procurarseli  
  –  
  vada  
  individuato  
  nel  
  raggiungimento  
  dell'
    
  “
  indipendenza  
  economica
  ”
    
  del  
  richiedente:  
  se  
  è  
  accertato 
  che   
  quest’ultimo   
  è  
  “economicamente   
  indipendente”   
  o   
  è   
  effettivamente   
  in   
  grado   
  di   
  esserlo,   
  non   
  deve   
  essergli 
  riconosciuto  
  il  
  relativo  
  diritto.  
    
  Tale  
  parametro  
  ha,  
  innanzitutto,  
  una  
  espressa  
  base  
  normativa:  
  infatti,  
  esso  
  è  
  tratto 
  dal  
  vigente  
  art.  
  337-septies,  
  primo  
  comma,  
  cod.  
  civ.  
  –  
  ma  
  era  
  già  
  previsto  
  dal  
  primo  
  comma  
  dell’art.  
  155-quinquies, 
  inserito  
  dall’art.  
  1,  
  comma  
  2,  
  della  
  legge  
  8  
  febbraio  
  2006,  
  n.  
  54  
  –  
  il  
  quale,  
  recante  
  «Disposizioni  
  in  
  favore  
  dei  
  figli 
  maggiorenni»,  
  stabilisce,  
  nel  
  primo  
  periodo:  
  «Il  
  giudice,  
  valutate  
  le  
  circostanze,  
  può  
  disporre  
  in  
  favore  
  dei  
  figli 
  maggiorenni  
  non  
  indipendenti  
  economicamente  
  il  
  pagamento  
  di  
  un  
  assegno  
  periodico».  
    
  La  
  legittimità  
  del  
  richiamo 
  di  
  questo  
  parametro  
  –  
  e  
  della  
  sua  
  applicazione  
  alla  
  fattispecie  
  in  
  esame  
  –  
  sta,  
  innanzitutto,  
  nell’analogia  
  legis  
  (art. 
  12,  
  comma  
  2,  
  primo  
  periodo,  
  delle  
  disposizioni  
  sulla  
  legge  
  in  
  generale)  
  tra  
  tale  
  disciplina  
  e  
  quella  
  dell’assegno  
  di 
  divorzio, in assenza di uno specifico contenuto normativo della nozione di “adeguatezza dei mezzi”, a norma dell’art. 
  5,  
  comma  
  6,  
  legge  
  n.  
  898  
  del  
  1970,  
  trattandosi  
  in  
  entrambi  
  i  
  casi,  
  mutatis  
  mutandis,  
  di  
  prestazioni  
  economiche 
  regolate  
  nell’ambito  
  del  
  diritto  
  di  
  famiglia  
  e  
  dei  
  relativi  
  rapporti.  
    
  In  
  secondo  
  luogo,  
  il  
  parametro  
  della 
  “indipendenza 
  economica”  
  –  
  se  
  condiziona  
  negativamente  
  il  
  diritto  
  del  
  figlio  
  maggiorenne  
  alla  
  prestazione  
  («assegno  
  periodico») 
  dovuta  
  dai  
  genitori,  
  nonostante  
  le  
  garanzie  
  di  
  uno  
  status  
  filiationis  
  tendenzialmente  
  stabile  
  e  
  permanente  
  (art.  
  238 
  cod.  
  civ.)  
  e  
  di  
  una  
  specifica  
  previsione  
  costituzionale  
  (art.  
  30,  
  comma  
  1)  
  che  
  riconosce  
  anche  
  allo  
  stesso  
  figlio 
  maggiorenne  
  il  
  diritto  
  al  
  mantenimento,  
  all’istruzione  
  ed  
  alla  
  educazione 
  -,  
  a  
  maggior  
  ragione  
  può  
  essere  
  richiamato 
  
 
 
 
 
  
  
 
   
 
 
 
 
 
 
   
 
 
   
 
 
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