NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI INERENTI ALLA SEPARAZIONE
COS’É LA GIURISPRUDENZA?
La
giurisprudenza
è
l’insieme
delle
sentenze
nelle
quali
sono
state
interpretate
le
norme
relative
ad
uno
specifico
istituto
giuridico
(ad
es.
assegno
divorzile,
furto,
usucapione),
emesse
dagli
Organi
Giurisdizionali (Giudici di Pace, Tribunali, Corti di Appello, Corte di Cassazione) dell’intera Nazione.
Ad
es.
l’insieme
delle
sentenze
nelle
quali
è
stata
determinata
la
misura
dell’assegno
di
divorzio
è
“la
giurisprudenza
sulla
determinazione
dell’assegno
di
divorzio”.
L’insieme
delle
sentenze
che
hanno
trattato
il reato di furto è “la giurisprudenza sul reato di furto”etc..
Può accadere che:
1
.
Tutti
i
giudici
emettono,
su
casi
con
caratteristiche
identiche,
sentenze
contenenti
un’interpretazione
univoca della legge. In questo caso si parla di “
giurisprudenza univoca”
.
2
.
Oppure,
se
la
legge
contiene
delle
frasi
ambigue,
su
casi
con
caratteristiche
identiche,
alcuni
giudici
possono
interpretare
la
legge
in
un
modo
e
altri
in
modo
differente
o
addirittura
opposto.
In
questa
ipotesi
se
vi
è
una
maggioranza
di
giudici
che
interpreta
la
legge
in
uno
specifico
modo
e
una
relativa
minoranza
che
la
interpreta
in
modo
differente
od
opposto,
si
dice
che
esiste
rispettivamente
una
giurisprudenza
“maggioritaria”
o
“dominante”
(nel
primo
caso)
e
una
relativa
“
giurisprudenza
minoritaria”
(nel secondo).
3
.
Se
non
c’è
una
maggioranza
e
una
relativa
minoranza
di
giudici
che
interpretano
la
legge
in
modi
differenti
ma
la
misura
di
due
orientamenti
interpretativi,
su
casi
con
caratteristiche
identiche,
è
vicina
al
50%,
o
se
vi
sono
più
orientamenti
nessuno
dei
quali
costituisce
una
maggioranza
assoluta,
(cioè
il
50%
più
1
delle
sentenze
complessive
su
uno
specifico
istituto)
si
dice
che
su
quella
materia
“il
diritto è controverso”
.
Questa
divergenza
nell’interpretazione
della
legge
può
verificarsi
non
solo
tra
Organi
Giurisdizionali
di diverse città ma anche tra giudici dello stesso tribunale.
Questo
può
avvenire
(e
comunemente
avviene)
perché
nessun
giudice
è
vincolato
al
rispetto
delle
regole
espresse
in
una
sentenza
emessa
da
altri
giudici
su
un
caso
analogo
o
identico
a
quello
che
sta
trattando.
Se
lo
fosse
infatti,
il
giudice
che
emettesse
per
primo
una
sentenza
su
uno
specifico
caso,
vincolando
tutti
gli
altri
alla
sua
interpretazione
produrrebbe
una
regola
valevole
erga
omnes
e
cioè
una
legge.
In
questa
ipotesi
per
assurdo,
un
giudice
che
non
è
stato
eletto
da
nessuno,
avrebbe
il
potere
di
vincolare tutti i cittadini italiani ad obbedire ad una regola che lui da solo ha stabilito nella sua sentenza.
In
sostanza,
se
i
giudici
fossero
tenuti
a
rispettare
l’orientamento
e
l’interpretazione
della
legge
eseguita
da
un
altro
giudice,
quest’ultimo
oltre
al
potere
giudiziario,
(cioè
di
far
rispettare
le
leggi)
avrebbe
anche
il
potere
legislativo
(cioè
di
creare
le
leggi),
vincolando
alla
sua
interpretazione
tutti
gli
altri
giudici
e
dunque tutti i cittadini.
Per
questo
motivo
e
per
il
fatto
della
tripartizione
dei
poteri
(
legislativo,
esecutivo
e
giudiziario
)
stabilita
dalla
Carta
Costituzionale,
anche
il
Giudice
di
Pace
ad
es.
di
Canicattì
è
libero
di
non
ossequiare
l’interpretazione
della
legge
contenuta
in
un’altra
sentenza,
nemmeno
se
si
tratta
di
una
sentenza
della
Suprema
Corte
di
Cassazione
a
Sezioni
Unite
emessa
su
un
caso
con
caratteristiche
identiche
a
quello
che
sta trattando.
É
infatti
previsto
dalla
legge
che
le
sentenze
abbiano
effetto
solo
relativamente
alle
parti
in
lite
nei
confronti delle quali vengono emesse.
A COSA SERVE E COME VIENE USATA LA GIURISPRUDENZA?
Detto
quanto
sopra,
la
giurisprudenza
viene
citata
negli
atti
per
confortare
una
determinata
ricostruzione
interpretativa
della
legge
che
è
stata
condivisa
già
da
altri
giudici
ed
esercitare,
de
facto,
in
questo
modo,
un
influenza
sul
giudicante
della
specifica
causa
trattata.
Per
questo
motivo
è
importante
un
approfondito studio della giurisprudenza nei giudizi contenziosi.
LE RECENTI SENTENZE PIÙ SIGNIFICATIVE:
nella
sentenza
seguente
è
stabilito
che
per
determinare
la
misura
dell’assegno
di
mantenimento
del
coniuge
più
debole
economicamente,
occorre
avere
riguardo
al
tenore
di
vita
goduto
in
costanza
di
matrimonio
anche
solo
potenziale
(cioè
a
quello
che
la
coppia
avrebbe
potuto
avere
sulla
base
delle
risorse
disponibili indipendentemente da quello realmente goduto).
Cassazione civile, sez. I, 16 maggio 2017, n. 12196
1.
Con
ricorso
depositato
in
data
4
novembre
2009
la
signora
M.B.
chiedeva
che
il
Tribunale
di
Milano
pronunciasse
la
separazione
personale
dal
marito
S.B.,
con
il
quale
era
coniugata
dal
15
dicembre
1990.
Venivano
chiesti:
la
separazione
personale
con
addebito
al
marito,
nonché
l’assegnazione
della
casa
coniugale e un assegno di mantenimento pari a tre milioni e seicentomila Euro mensili.
2.
Il
convenuto,
costituitosi,
contestava
la
fondatezza
della
domanda
di
addebito,
che
proponeva
a
sua
volta
in
via
riconvenzionale
nei
confronti
della
moglie;
eccepiva
altresì
la
carenza
dei
presupposti
per
l’assegnazione
della
casa
coniugale,
in
quanto
i
tre
figli
nati
dal
matrimonio
erano
ormai
maggiorenni
ed
autosufficienti
sul
piano
economico,
nonché
la
disponibilità,
in
capo
alla
moglie,
di
risorse
patrimoniali
tali
da escludere un contributo per il proprio mantenimento.
3.
Nel
l’adottare
i
provvedimenti
previsti
dall’art.
708
cod.
proc.
civ.,
il
Presidente,
attesa
la
permanenza
della
ricorrente
nella
casa
coniugale
in
assenza
dei
presupposti
per
l’assegnazione,
ritenuta
la
carenza
del
potere
di
fissare
un
termine
per
il
relativo
rilascio,
determinava
in
Euro
50.000
mensili
il
contributo dovuto fino al rilascio dell’abitazione, e in un milione di Euro l’assegno per il periodo successivo.
4.
Successivamente,
avendo
le
parti
rinunciato
alle
reciproche
domande
di
addebito,
ed
essendosi
ritenuta
la
causa
matura
per
la
decisione,
con
sentenza
depositata
in
data
27
dicembre
2012,
il
Tribunale
adito
dichiarava
la
separazione
personale
dei
coniugi,
ponendo
a
carico
del
marito,
a
titolo
di
contributo
per
il
mantenimento
della
Ba.,
un
assegno
mensile
di
tre
milioni
di
Euro,
con
decorrenza
dalla
data
dell’udienza presidenziale.
5.
Con
la
sentenza
indicata
in
epigrafe
la
Corte
di
appello
di
Milano,
in
parziale
accoglimento
del
gravame
proposto
dal
Be.,
ha
determinato
l’assegno
di
mantenimento
in
favore
della
Ba.
in
Euro
cinquantamila
mensili
con
decorrenza
dalla
domanda
fino
al
settembre
del
2010,
ed
in
due
milioni
di
Euro
mensili
per
il
periodo
successivo,
ponendo
a
carico
dell’appellante
le
spese
processuali,
compensate,
nel
resto, nella misura di due terzi.
6.
La
Corte
distrettuale
ha
disatteso
preliminarmente
l’eccezione
dell’appellante
fondata
su
un’interpretazione
costituzionalmente
orientata
dell’art.
156
cod.
civ.,
nel
senso
che
l’assegno
di
mantenimento,
in
considerazione
della
posizione
preminente
assegnata
alla
dignità
del
lavoro
nella
Costituzione,
inconciliabile
con
l’acquisizione
di
posizioni
economiche
immeritate,
non
potrebbe
superare
una
determinata
soglia;
ha
ritenuto
poi
manifestamente
infondata
l’eccezione
di
illegittimità
costituzionale
di
detta
norma,
sollevata
in
riferimento
agli
artt.
1,
4,
36
e
38
Cost.,
affermando
che
un
bilanciamento
dei
valori
del
lavoro
e
della
famiglia
non
esclude
che,
in
caso
di
separazione
giudiziale,
la
misura
dell’assegno
di
mantenimento
sia
stabilita
non
con
riferimento
a
una
determinata
attività
lavorativa,
bensì
in
maniera
tale
da
consentire
al
coniuge
privo
di
adeguati
redditi
propri
di
mantenere,
considerate
le
capacità
dell’obbligato,
un
tenore
di
vita
tendenzialmente
analogo
a
quello
goduto
nel
periodo di convivenza matrimoniale.
7.
Passando
all’esame
del
merito
alla
luce
delle
contestazioni
mosse
dall’appellante
alla
sentenza
di
primo
grado,
si
è
osservato
che
non
risultava
corrispondente
al
vero
che
il
Tribunale
non
avesse
tenuto
conto
della
posizione
reddituale
della
Ba.
quale
socia
unica
delle
società
“Il
Poggio”
e
“Reality
Corp”,
proprietarie
di
cespiti
in
Italia,
Stati
Uniti
d’America
e
Gran
Bretagna:
il
giudice
di
prime
cure,
all’esito
della
valutazione
comparata
delle
situazioni
patrimoniali
e
reddituali
di
entrambi
i
coniugi,
pur
non
escludendo
che
i
beni
dell’appellata
producessero
un
reddito
annuo
di
un
milione
e
400.000,00
Euro
e
pur
considerando
l’entità
del
patrimonio
della
moglie,
aveva
correttamente
constatato
una
rilevante
disparità
fra
i
redditi
e
i
patrimoni
dei
due
coniugi.
Sotto
tale
profilo
sono
state
richiamate
le
classifiche
FORBES,
che
collocavano,
sia
pure
in
maniera
differenziata
fra
le
varie
annualità,
il
Be.
fra
gli
uomini
più
ricchi
del
mondo,
con
un
patrimonio
di
vari
miliardi
di
dollari,
essendo
per
altro
proprietario
di
numerose
ville
prestigiose
e
usufruendo
di
un
reddito
medio
annuo,
sulla
base
delle
ultime
dichiarazioni
fiscali,
pari
a
53
milioni
di
Euro.
8.
La
Corte
di
appello
ha
inoltre
evidenziato
che
lo
stesso
appellante,
nel
corso
del
giudizio
di
primo
grado,
aveva
ammesso,
a
fronte
delle
deduzioni
istruttorie
della
controparte,
di
aver
garantito
alla
moglie
un
tenore
di
vita
assolutamente
al
di
fuori
di
ogni
norma,
mettendole
a
disposizione,
nella
villa
di
Macherio,
adibita
a
casa
coniugale,
un
maggiordomo
e
una
segretaria
personale,
cuochi,
autisti,
cameriere
e
guardarobiere,
nonché
versandole
ogni
mese,
solo
come
“argent
de
poche”,
la
somma
di
Euro
cinquantamila.
9.
Sulla
base
di
tali
dati,
pur
in
assenza
della
determinazione
dell’esatto
ammontare
dei
relativi
importi,
la
Corte
territoriale
ha
confermato
il
giudizio
di
inadeguatezza
dei
mezzi
di
cui
disponeva
la
Ba.
al
fine
di
conseguire
il
tenore
di
vita
tenuto
durante
la
convivenza
coniugale,
con
conseguente
diritto,
tenuto
conto delle evidenziate disponibilità del coniuge, all’assegno di mantenimento.
10.
Passando
all’esame
delle
doglianze
relative
alla
quantificazione
del
contributo,
la
Corte
di
appello
le
ha
condivise
in
parte,
considerando
che,
essendo
uno
dei
temi
centrali
della
controversia
la
perdita
per
la
moglie
del
godimento
della
casa
coniugale,
costituita
dalla
villa
Visconti
Belvedere
di
Macherio,
la
stessa
non
aveva
allegato
le
circostanze
inerenti
all’abitazione
da
lei
prescelta
dopo
il
rilascio
di
detta
villa,
né
poteva
ritenersi
che
l’assegno
dovesse
essere
commisurato
alle
ingenti
spese
sostenute
per
la
gestione
di
tale
casa
coniugale,
anche
perché
la
stessa
era
funzionale
al
soddisfacimento
delle
esigenze
di
un’intera
famiglia, e non della sola Ba.
11.
Sotto
tale
profilo,
la
somma
determinata
dal
Tribunale
appariva
eccessiva:
la
Corte
di
appello
ha
quindi
ritenuto
congruo
–
considerati,
da
un
lato,
l’elevatissimo
tenore
di
vita
goduto
durante
la
convivenza
matrimoniale
e,
dall’altro,
la
lunga
durata
del
rapporto
matrimoniale
e
il
contributo
morale
e
affettivo
reso
dalla
moglie
all’intera
famiglia,
la
dedizione
alla
cura
della
prole,
nonché
l’impossibilità
per
l’appellata
di
riprendere
l’attività
di
attrice
abbandonata,
con
il
consenso
del
coniuge,
molti
anni
prima
–
un
assegno
di
due
milioni
di
Euro
mensili,
che
certamente
il
Be.,
così
come
nel
periodo
anteriore
alla
separazione,
era
in
grado di versare.
12.
La
corresponsione
dell’assegno
nell’indicata
misura
è
stata
fatta
decorrere,
in
riforma
della
decisione
di
primo
grado,
dal
settembre
dell’anno
2010,
in
coincidenza
con
la
cessazione
del
godimento
della
casa
coniugale,
rimanendo
ferma,
per
il
periodo
anteriore,
la
somma
determinata
all’esito
dell’udienza
presidenziale.
13.
Per
la
cassazione
di
tale
decisione
S.B.
propone
ricorso,
affidato
a
tre
motivi,
cui
la
parte
intimata
resiste
con
controricorso.
Sono
state
depositate
memorie
da
ambedue
le
parti,
ai
sensi
dell’art.
378
cod.
proc. civ.
Ragioni della decisione
1.
Con
il
primo
motivo,
si
denuncia
omesso
esame
di
un
fatto
controverso
e
decisivo
per
il
giudizio,
ai
sensi
dell’art.
360,
primo
comma,
n.
5.
cod.
proc.
civ.,
con
riferimento
alla
ritenuta
incapacità
della
moglie
di
produrre
reddito
sulla
base
dell’attività
di
attrice,
senza
considerare
l’effettiva
attività
imprenditoriale
attualmente svolta dalla stessa.
1.1.
In
via
incidentale,
viene
riproposta
l’eccezione
di
illegittimità
costituzionale
dell’art.
156
cod.
civ.
in
relazione
agli
artt.
1,
2,
3,
4,
36
e
38
Cost.,
nella
parte
in
cui
detta
norma
non
prevede
che
l’obbligo
solidaristico
ivi
disciplinato
debba
essere
commisurato
ai
redditi
riconosciuti
ai
lavoratori
e,
in
ogni
caso,
in
misura non superiore a tali redditi.
2.
La
natura
ancipite
della
censura
impone
una
distinta
disamina
dei
profili
in
essa
prospettati.
Appare
in
ogni
caso
opportuno
premettere
che
l’applicabilità,
ratione
temporis,
dell’art.
360,
primo
comma,
n.
5,
cod.
proc.
civ.
nella
formulazione
introdotta
dal
D.L.
22
giugno
2012,
n.
83,
art.
54,
convertito
in
legge,
con
modificazioni,
dall’art.
1,
comma
1,
della
L.
7
agosto
2012,
n.
134,
che
ha
ridotto
al
“minimo
costituzionale”
il
sindacato
di
legittimità
sulla
motivazione,
nel
senso
già
chiarito
da
questa
Corte
(Cass.,
Sez.
U,
7
aprile
2014,
n.
8053),
secondo
cui
la
lacunosità
e
la
contraddittorietà
della
motivazione
possono
essere
censurate
solo
quando
il
vizio
sia
talmente
grave
da
ridondare
in
una
sostanziale
omissione,
riduce
i
margini
del
sindacato
di
legittimità,
limitato
alla
verifica
dell’esame
del
“fatto
controverso”
da
parte
del
giudice
del
merito.
2.1. In particolare, nella decisione sopra richiamata sono stati affermati i seguenti principi.
2.1.1.
La
riformulazione
dell’art.
360
c.p.c,
n.
5
–
secondo
cui
è
deducibile
esclusivamente
l’«omesso
esame
circa
un
fatto
decisivo
per
il
giudizio
che
è
stato
oggetto
di
discussione
tra
le
parti»
–
deve
essere
interpretata
come
riduzione
al
minimo
costituzionale
del
sindacato
sulla
motivazione
in
sede
di
giudizio
di
legittimità,
per
cui
l’anomalia
motivazionale
denunciabile
in
sede
di
legittimità
è
solo
quella
che
si
tramuta
in
violazione
di
legge
costituzionalmente
rilevante
e
attiene
all’esistenza
della
motivazione
in
sé,
come
risulta
dal
testo
della
sentenza
e
prescindendo
dal
confronto
con
le
risultanze
processuali,
e
si
esaurisce,
con
esclusione
di
alcuna
rilevanza
del
difetto
di
sufficienza,
nella
mancanza
assoluta
di
motivi
sotto
l’aspetto
materiale
e
grafico,
nella
motivazione
apparente,
nel
contrasto
irriducibile
fra
affermazioni
inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile.
2.1.2.
Il
nuovo
testo
dell’art.
360,
primo
comma,
n.
5,
cod.
proc.
civ.
introduce
nell’ordinamento
un
vizio
specifico
che
concerne
l’omesso
esame
di
un
fatto
storico,
principale
o
secondario,
la
cui
esistenza
risulti
dal
testo
della
sentenza
o
dagli
atti
processuali,
che
abbia
costituito
oggetto
di
discussione
tra
le
parti
e
abbia
carattere
decisivo
(vale
a
dire
che,
se
esaminato,
avrebbe
determinato
un
esito
diverso
della
controversia).
2.1.3.
L’omesso
esame
di
elementi
istruttori
non
integra
di
per
sé
vizio
di
omesso
esame
di
un
fatto
decisivo,
se
il
fatto
storico
rilevante
in
causa
sia
stato
comunque
preso
in
considerazione
dal
giudice,
benché
la
sentenza
non
abbia
dato
conto
di
tutte
le
risultanze
probatorie;
la
parte
ricorrente
dovrà
indicare
–
nel
rigoroso
rispetto
delle
previsioni
di
cui
all’art.
366
c.p.c,
comma
1,
n.
6,
e
all’art.
369
c.p.c,
comma
2,
n.
4
–
il
“fatto
storico”,
il
cui
esame
sia
stato
omesso,
il
“dato”,
testuale
o
extratestuale,
da
cui
ne
risulti
l’esistenza,
il
“come”
e
il
“quando”
(nel
quadro
processuale)
tale
fatto
sia
stato
oggetto
di
discussione
tra
le
parti, e la “decisività” del fatto stesso.
2.2.
La
prima
doglianza
non
appare
condivisibile,
in
quanto
nella
sentenza
impugnata
la
circostanza
che costituisce l’oggetto specifico della censura del ricorrente è stata accuratamente esaminata.
In
particolare,
la
Corte
territoriale,
dopo
aver
richiamato
(pag.
23),
fra
gli
altri,
il
motivo
di
appello
secondo
cui
il
giudice
di
primo
grado
“avrebbe
erroneamente
ritenuto
che
l’appellata
non
sia
titolare
di
alcun
reddito,
nonostante
essa
sia
socia
unica
della
S.r.l.
il
Poggio
avente
un
patrimonio
di
78
milioni
di
Euro….”,
ha
disatteso
il
motivo
di
gravame,
osservando
che
“non
risponde
al
vero
che
il
primo
giudice
abbia
ritenuto
che
l’appellata
non
sia
titolare
di
alcun
reddito”
e,
precisando,
al
riguardo,
che
la
stessa
Ba.
aveva
asserito
“di
essere
socia
unica
della
società
II
Poggio,
e
per
il
tramite
di
questa,
della
società
Reality
Corp
di
New
York,
proprietarie
entrambe
di
cespiti
in
Italia,
Stati
Uniti
ed
Inghilterra,
pur
aggiungendo
che
uno
dei
cespiti
–
il
palazzo
Canova
–
è
gravato
da
un
mutuo
di
venti
milioni
di
Euro
e
che
vari
conduttori
avevano
comunicato la volontà di recesso”.
2.3.
Il
tema
del
reddito
derivante
dalla
suddetta
partecipazione
societaria
risulta,
pertanto,
esaminato
nella
sentenza
impugnata
e,
come
si
dirà
appresso,
valutato
nel
contesto
delle
complessive
risultanze
processuali:
assume
un
aspetto
meramente
terminologico
la
differenza
fra
la
prospettazione,
nel
ricorso
in
esame,
dello
svolgimento,
da
parte
dell’intimata,
di
una
vera
e
propria
attività
imprenditoriale,
rispetto
alla
percezione
dei
redditi
derivanti
dalla
suddetta
partecipazione
societaria.
Per
il
vero,
il
possesso
della
qualità
di
socio
non
equivale
ad
esercizio
di
impresa,
né
il
tenore
dell’atto
di
appello
(trascritto
in
parte
qua
a
pag.
17
del
ricorso)
depone
nel
senso
della
qualifica
di
imprenditrice
in
capo
alla
Ba.,
essendosi
sostenuto,
per
contestare
la
dichiarazione
della
stessa
di
essere
“casalinga”,
che
“nella
sua
qualità
di
socio
unico
di
II
Poggio S.r.l. ben più opportunamente potrebbe qualificarsi come immobiliarista”.
2.4.
Al
di
là
degli
aspetti
di
natura
formale,
deve
rimarcarsi
che
la
Corte
distrettuale
ha
esaminato
ogni
aspetto
della
posizione
patrimoniale
e
reddituale
dell’intimata,
rapportandola
poi
a
quella
del
marito,
ed
ha
conclusivamente
osservato
che
“
pur
volendo
accettare
le
stime
del
patrimonio
della
Ba.
operate
dall’odierno
appellante;
pur
tenendo
in
considerazione
anche
il
valore
della
villa
di
S-Chanf
in
Engadina,
dalla
Ba.
donata
alla
madre;
pur
non
volendo
prestar
fede
alle
asserite
disdette
dei
conduttori,
la
disparità
tra
i
patrimoni
e
redditi
dei
due
coniugi
rimane
molto
rilevante”.
Nell’espressione
di
tale
giudizio
si
condensa
l’essenza
della
controversia
in
esame:
a
seguito
delle
rinunce
alle
reciproche
domande
di
addebito
e
delle
ammissioni
delle
parti
in
ordine
a
determinati
aspetti
di
natura
fattuale,
il
contraddittorio
si
è
concentrato
essenzialmente
sulla
concreta
determinazione
del
contributo
al
mantenimento
della
moglie,
nel
cui
ambito
ha
assunto
un
ruolo
centrale
la
questione
–
esaminata
dalla
Corte
di
appello
e
risolta
in
termini
parzialmente
adesivi
alla
tesi
in
proposito
sostenuta
dall’appellante
Be.
–
concernente
la
mancata
assegnazione
alla
moglie
della
villa
di
Macherio,
sia
per
l’insussistenza
dei
presupposti
richiesti
dall’art.
337-sexies
cod.
civ.,
sia
per
la
mancata
adesione,
da
parte
della
stessa
Ba.,
all’ipotesi
conciliativa
che
prevedeva
la
disponibilità
in
suo
favore
di
tale
bene
immobile
e
un
assegno
annuo
di
otto
milioni
di
Euro.
2.5.
Non
può,
pertanto,
ritenersi
che
vi
sia
stato
un
omesso
esame
nei
termini
lamentati
dal
ricorrente
e
riconducibili
alla
previsione
normativa
applicabile
nel
caso,
dovendosi
ribadire
che
l’omesso
esame
di
elementi
istruttori
non
integra,
di
per
sé,
il
vizio
di
omesso
esame
di
un
fatto
decisivo,
censurabile
ex
art.
360,
primo
comma,
n.
5,
cod.
proc.
civ.,
qualora
il
fatto
storico,
rilevante
in
causa,
sia
stato
comunque
preso
in
considerazione
dal
giudice,
ancorché
la
sentenza
non
abbia
dato
conto
di
tutte
le
risultanze
probatorie
(Cass., 10 febbraio 2015, n. 2498).
3.
Prescindendo,
per
ora,
dagli
ulteriori
aspetti
inerenti
alla
ricostruzione
dei
termini
fattuali
della
vicenda,
investiti
dai
motivi
di
ricorso
che
saranno
appresso
esaminati,
va
osservato
che,
sia
pure
rapportato
a
una
vicenda
che,
per
l’eccezionale
rilevanza
della
consistenza
patrimoniale
e
reddituale
dell’obbligato,
non
trova
alcun
riscontro,
quanto
meno
sotto
il
profilo
quantitativo,
nelle
controversie
in
materia
di
separazione
personale
dei
coniugi
che
emergono
dalla
quotidiana
esperienza
giurisprudenziale,
l’orientamento
consolidato
di
questa
Corte
in
merito
all’interpretazione
dell’art.
156,
comma
1,
cod.
civ.
risulta
correttamente
applicato
nella
decisione
in
esame.
Tale
norma
dispone
che
«il
giudice,
pronunziando
la
separazione,
stabilisce
a
vantaggio
del
coniuge
cui
non
sia
addebitabile
la
separazione
il
diritto
di
ricevere
dall’altro
coniuge
quanto
è
necessario
al
suo
mantenimento,
qualora
egli
non
abbia
adeguati
redditi propri».
3.1.
Mette
conto
di
rimarcare
sin
d’ora
la
profonda
differenza
fra
il
dovere
di
assistenza
materiale
fra
i
coniugi
nell’ambito
della
separazione
personale
e
gli
obblighi
correlati
alla
cd.
“solidarietà
post-coniugale”
nel
giudizio
di
divorzio:
nel
primo
caso,
il
rapporto
coniugale
non
viene
meno,
determinandosi
soltanto
una
sospensione
dei
doveri
di
natura
personale,
quali
la
convivenza,
la
fedeltà
e
la
collaborazione;
al
contrario,
gli
aspetti
di
natura
patrimoniale
–
con
particolare
riferimento
all’ipotesi,
come
quella
in
esame,
di
non
addebitabilità
della
separazione
stessa
–
non
vengono
meno,
pur
assumendo
forme
confacenti
alla
nuova situazione.
Per
quanto
in
questa
sede
maggiormente
rileva,
l’obbligo
di
assistenza
materiale
trova
di
regola
attuazione
nel
riconoscimento
di
un
assegno
di
mantenimento
in
favore
del
coniuge
che
versa
in
una
posizione
economica
deteriore
e
non
è
in
grado,
con
i
propri
redditi,
di
mantenere
un
tenore
di
vita
analogo
a
quello
offerto
dalle
potenzialità
economiche
dei
coniugi.
Sotto
tale
profilo,
secondo
il
consolidato
orientamento
di
questa
Corte,
con
l’espressione
“redditi
adeguati”
la
norma
ha
inteso
riferirsi
al
tenore
di
vita
consentito
dalle
possibilità
economiche
dei
coniugi
(Cass.,
24
aprile
2007,
n.
9915)
;
tale
dato,
non
ricorrendo
la
condizione
ostativa
dell’addebito
della
separazione,
richiede
un’ulteriore
verifica
per
appurare
se
i
mezzi
economici
di
cui
dispone
il
coniuge
richiedente
gli
consentano
o
meno
di
conservare
tale
tenore
di
vita.
L’esito
negativo
di
detto
accertamento
impone,
poi,
di
procedere
a
una
valutazione
comparativa
dei
mezzi
di
cui
dispone
ciascun
coniuge,
nonché
di
particolari
circostanze
(cfr.
art.
156,
comma
2,
cod.
civ.),
quali, ad esempio, la durata della convivenza .
3.2.
La
Corte
di
appello
si
è
conformata
a
tale
orientamento,
in
quanto,
dopo
aver
dato
atto,
in
merito
al
tenore
di
vita,
che
l’appellante
aveva
ammesso,
al
fine
di
dimostrare
l’inutilità
delle
richieste
istruttore
della
moglie,
di
aver
consentito
alla
stessa
“un
tenore
di
vita
assolutamente
al
di
fuori
di
ogni
norma”,
definendo
poi
il
proprio
patrimonio
“ultracapiente”,
è
pervenuta
alla
conclusione
che
la
Ba.
non
potesse
con
i
propri
mezzi
conseguire
il
tenore
di
vita
analogo
a
quello
goduto
durante
la
convivenza
matrimoniale,
escludendo,
poi,
che
tale
aspirazione
comportasse
la
realizzazione
di
una
scopo
eccessivamente
consumistico o comunque destinato alla capitalizzazione o al risparmio.
3.3.
Alla
luce
di
quanto
sopra
evidenziato,
deve
constatarsi
che
non
risulta
violato
il
dettato
normativo
di
riferimento
nell’interpretazione
costantemente
resane
da
questa
Corte,
dovendosi
precisare
che,
una
volta
verificata
la
corretta
applicazione
di
tali
principi,
la
determinazione
in
concreto
dell’assegno
di
mantenimento
costituisce
una
questione
riservata
al
giudice
del
merito,
non
sindacabile
in
sede
di
legittimità
se
non
sotto
il
profilo
della
motivazione,
per
la
quale,
per
altro,
valgano
le
richiamate
limitazioni derivanti dall’attuale formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
4.
Tanto
premesso,
non
può
omettersi
di
evidenziare
che,
in
relazione
alla
censura
in
esame,
lo
stesso
ricorrente
non
ha
in
alcun
modo
dedotto,
ai
sensi
dell’art.
360,
primo
comma,
n.
3,
cod.
civ.,
la
violazione
o
la
falsa
applicazione
della
suddetta
norma,
avendo
al
contrario
prospettato,
in
termini
non
dissimili
da
quelli
già
indicati
nel
corso
del
giudizio
di
merito,
la
eccezione
di
illegittimità
costituzionale
dell’art.
156
cod.
civ.
Tale
disposizione,
consentendo
al
coniuge
beneficiario
dell’assegno
di
percepire
somme
superiori
a
qualsiasi
lavoratore,
così
eccedendo
la
possibilità
di
godere
di
un’esistenza
libera
e
dignitosa
(art.
36
Cost.),
si
porrebbe
in
maniera
irrazionale
in
contrasto
con
il
principio
solidaristico
sancito
dalla
Carta
costituzionale,
privilegiando
uno
status
sociale
e
così
consentendo
al
coniuge
beneficiario
di
sottrarsi,
per
altro
percependo,
senza
espletare
alcuna
attività,
somme
eccedenti
la
possibilità
di
mantenere
un’esistenza
libera
e
dignitosa,
al
dovere
di
contribuire
al
progresso
sociale
per
il
tramite
della
propria
attività
lavorativa.
Inoltre,
ponendosi
gli
obblighi
sanciti
da
detta
norma
solo
a
carico
del
coniuge
onerato,
risulterebbe violato il principio di uguaglianza.
4.1.
A
sostegno
della
fondatezza
della
eccezione
viene
richiamata
un’ordinanza
di
rimessione
alla
Corte
costituzionale
in
merito
all’art.
5,
comma
6,
della
L.
n.
898
del
1970,
che
in
maniera
analoga
prevede,
nell’interpretazione
prevalente,
il
riferimento,
ai
fini
della
determinazione
dell’assegno
di
divorzio,
al
tenore di vita degli ex coniugi durante la convivenza matrimoniale.
4.2.
Vale
bene
evidenziare
in
via
preliminare
la
sostanziale
diversità
del
contributo
in
favore
del
coniuge
separato
dall’assegno
divorzile,
sia
perché
fondati
su
presupposti
del
tutto
distinti,
sia
perché
disciplinati in maniera autonoma e in termini niente affatto coincidenti.
Premesso
che,
come
già
rilevato,
la
separazione
personale
dei
coniugi,
a
differenza
dello
scioglimento
del
matrimonio
o
della
cessazione
dei
suoi
effetti
civili
non
elide,
anzi
presuppone,
la
permanenza
del
vincolo
coniugale,
deve
ribadirsi
che
il
dovere
di
assistenza
materiale,
nel
quale
si
attualizza
l’assegno
di
mantenimento,
conserva
la
sua
efficacia
e
la
sua
pienezza
in
quanto
costituisce
una
dei
cardini
fondamentali
del
matrimonio
e
non
presenta
alcun
aspetto
di
incompatibilità
con
la
situazione,
in
ipotesi
anche temporanea, di separazione.
4.3.
Altrettanto
non
può
affermarsi
in
merito
alla
solidarietà
post-coniugale
alla
base
dell’assegno
di
divorzio:
al
riguardo,
è
sufficiente
richiamare
la
recente
sentenza
di
questa
Corte
n.
11504
del
10
maggio
2017,
le
argomentazioni
che
la
sorreggono
(e,
in
particolare,
il
n.
2.2.,
lettera
A,
pag.
8)
ed
i
principi
di
diritto con essa enunciati.
4.4.
Passando
all’esame
della
questione
inerente
all’assegno
di
mantenimento
previsto
dall’art.
156
cod.
civ.,
che
violerebbe
i
parametri
costituzionali
indicati
nel
ricorso,
in
quanto
includerebbe
fra
le
conseguenze
patrimoniali
del
vincolo
matrimoniale
–
come
sopra
evidenziato,
persistenti
nel
regime
di
separazione
personale
–
delle
contribuzioni
a
carico
dell’onerato
del
tutto
avulse
dall’attività
svolta
dall’altro
coniuge,
deve
in
primo
luogo
rilevarsi
che
la
norma,
nell’interpretazione
costantemente
resane
da
questa
Corte,
non
è
intesa
a
promuovere,
come
sembra
sostenersi
nel
ricorso,
una
colpevole
inerzia
del
beneficiario,
in
quanto
si
ritiene
che,
in
relazione
all’assegno
di
mantenimento
in
esame,
debba
tenersi
dell’attitudine
del
coniuge
al
lavoro,
la
quale
viene
in
rilievo
ove
venga
riscontrata
in
termini
di
effettiva
possibilità
di
svolgimento
di
un’
attività
lavorativa
retribuita,
in
considerazione
di
ogni
concreto
fattore
individuale
ed
ambientale,
e
non
già
di
mere
valutazioni
astratte
ed
ipotetiche
(Cass.,
13
febbraio
2013,
n.
3502; Cass., 25 agosto 2006, n. 18547; Cass., 2 luglio 2004, n. 12121).
4.5.
Deve
poi
rilevarsi
come
l’attribuzione
di
un
assegno
di
mantenimento
al
coniuge
che
non
abbia
adeguati
redditi
propri
trova
la
sua
fonte
nel
rilevante
ruolo
che
l’art.
29
Cost.
attribuisce
alla
famiglia
nell’ambito
dell’ordinamento.
Assume
particolare
rilevanza
il
principio
di
uguaglianza
morale
e
giuridica
tra
i
coniugi,
più
volte
ribadito
dalla
giurisprudenza
costituzionale
(Corte
cost.,
4
maggio
1966,
n.
46,
proprio
con
riferimento
all’obbligo
di
consentire
al
coniuge
separato
di
mantenere
lo
stesso
tenore
di
vita
precedentemente
goduto,
sia
pure
con
la
necessità
di
considerare
i
mezzi
di
cui
autonomamente
disponga;
id.,
16
dicembre
1968,
n.
126;
id.,
20
marzo
1969,
n.
45;
id.,
27
novembre
1969,
n.
147;
id.,
24
giugno
1970,
n.
133,
in
cui
si
afferma,
in
tema
di
rapporti
patrimoniali,
che
l’uguaglianza
dei
coniugi
garantisce
l’unità
familiare,
mentre
“è
la
disuguaglianza
a
metterla
in
pericolo”;
id.,
14
giugno
1974,
n.
187;
id.,
18
dicembre
1979, n. 153; id., 4 aprile 1990, n. 215; id., 6 giugno 2006. N. 254; id., 23 marzo 2010, n. 138).
4.6.
In
considerazione
di
quanto
evidenziato,
l’eccezione
di
illegittimità
costituzionale
in
esame,
sotto
tutti
i
profili
dedotti,
appare
manifestamente
infondata,
in
quanto
la
determinazione
dell’assegno
di
mantenimento
sulla
base
del
tenore
di
vita
dei
coniugi,
tenuto
conto
delle
altre
circostanze
e
dei
redditi
dell’obbligato,
costituisce
l’espressione
di
quei
valori
costituzionali
sopra
richiamati
che,
secondo
criteri
di
proporzionalità
e
ragionevolezza,
si
trovano
in
rapporto
di
integrazione
reciproca
con
gli
altri
principi
e
diritti
fondamentali
affermati
dalla
Costituzione
(Corte
cost.,
7
ottobre
2014,
n,
242;
id.,
9
maggio
2013,
n.
85).
Vale
bene
richiamare,
in
proposito,
l’affermazione
del
Giudice
delle
leggi
secondo
cui
“tutti
i
diritti
fondamentali
tutelati
dalla
Costituzione
si
trovano
in
rapporto
di
integrazione
reciproca
e
non
è
possibile
pertanto
individuare
uno
di
essi
che
abbia
la
prevalenza
assoluta
sugli
altri.
La
tutela
deve
essere
sempre
sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro”.
5.
Con
il
secondo
mezzo
si
deduce
l’omesso
esame,
evidentemente
ai
sensi
dell’art.
360,
primo
comma,
n.
5,
cod.
proc.
civ.,
del
peggioramento
delle
condizioni
economiche
e
reddituali
del
ricorrente;
sotto
il
medesimo
profilo
si
denuncia
la
violazione
dell’art.
156,
comma
2,
cod.
civ.,
richiamandosi
l’orientamento
secondo
cui
nel
corso
del
giudizio
di
separazione
rilevano
le
evoluzioni
della
situazione
reddituale
dei
coniugi,
onde
adeguare
la
pronuncia,
eventualmente
stabilendo
una
misura
dell’assegno
diversa
per
determinati periodi, ai presupposti inerenti alla determinazione della misura dell’assegno.
5.1. La censura è infondata, sotto tutti i profili dedotti.
5.2.
Deve
in
primo
luogo
rilevarsi
che
la
deduzione
inerente
all’omesso
esame
della
questione
inerente
al decremento dei redditi dell’onerato non trova riscontro nella motivazione della decisione impugnata.
La
Corte
di
appello,
infatti,
dopo
aver
riportato
(pag.
25)
il
motivo
di
gravame
secondo
cui
il
mutamento
in
peius
della
condizione
reddituale
e
patrimoniale
dell’appellante,
dovuto
alla
crisi
economica
mondiale,
avrebbe
imposto
una
riduzione
del
contributo,
anche
al
fine
di
evitare
che
egli
fosse
costretto
a
dismettere
parte
del
suo
patrimonio,
ha
calcolato
in
53
milioni
di
Euro
il
reddito
medio
annuo
del
Be.,
sulla
base
delle
dichiarazioni
dei
redditi
presentate
negli
anni
dal
2006
al
2010,
ed
ha
quindi
espresso
un
giudizio
di
inattendibilità
in
merito
tanto
all’ultimo
reddito
dichiarato,
nell’anno
2012,
di
Euro
4.515.298,00,
quanto
in
ordine alla dedotta riduzione del valore del gruppo Fininvest.
5.3.
La
violazione
della
norma
sopra
indicata
–
per
non
aver
la
sentenza
impugnata
tenuto
conto
del
decremento
–
può
ritenersi
esclusa
sulla
base
del
rilievo
di
inattendibilità
testé
indicato,
essendo
evidente
che
il
giudizio
di
inattendibilità
in
merito
alla
deduzione
esimeva
la
valutazione
delle
giuridiche
conseguenze
della
circostanza;
mette
conto
di
precisare,
per
altro,
che
non
è
sufficiente
il
verificarsi
di
una
variazione
delle
condizioni
patrimoniali
dei
coniugi
(sia
in
corso
di
causa
–
Cass.,
22
ottobre
2002,
n.
14886;
Cass.,
22
aprile
1999,
n.
4011
–
sia
nei
giudizi
di
revisione
dell’assegno),
essendo
necessario
procedere
al
rigoroso
accertamento
dell’incidenza
della
nuova
situazione
patrimoniale
sul
diritto
al
contributo
o
sulla
sua
entità
(Cass.,
20
giugno
2014,
n.
14143;
Cass.,
15
settembre
2008,
n.
236943;
Cass.,
7
dicembre
2007,
n.
25618;
Cass.,
2
maggio
2007,
n.
10133;
Cass.,
28
agosto
1999,
n.
9056;
Cass.,
28
settembre
1998,
n.
8654).
Sotto
tale
profilo,
come
sopra
evidenziato,
la
Corte
territoriale
ha
posto
in
evidenza
il
rilevante
divario
fra
le
condizioni
patrimoniali
e
reddituali
degli
ex
coniugi,
ponendo
in
risalto,
infine,
l’ammissione
dello
stesso
Be. di essere “ultracapiente”.
6.
La
terza
censura,
con
la
quale
si
deduce
l’errore
del
calcolo
della
media
dei
redditi
dell’appellante,
per
non
essersi
considerata
la
natura
straordinaria
degli
elevati
profitti
conseguiti
nell’anno
2006,
con
conseguente
deduzione
della
violazione
di
cui
all’art.
112
cod.
proc.
civ.,
presenta
evidenti
profili
di
inammissibilità,
per
non
aver
colto
la
complessiva
ratio
deciderteli
della
decisione
impugnata,
fondata
non
soltanto
sulla
posizione
reddituale
dell’appellante,
già
di
per
sé
estremamente
rilevante,
considerato
anche
il
giudizio
di
inattendibilità
in
merito
al
reddito
più
recente,
ma,
soprattutto,
sulla
consistenza
patrimoniale
del
ricorrente,
che,
con
varie
oscillazioni,
lo
collocava
-nel
periodo
considerato
–
fra
gli
uomini
più
ricchi
del mondo, tenuto conto delle partecipazioni azionarie e della proprietà di prestigiose ville.
Tale
aspetto
si
associa
al
richiamo
della
Corte
territoriale
al
principio,
non
censurato,
secondo
cui
non
è
necessaria
una
individuazione
precisa
degli
elementi
relativi
alla
situazione
patrimoniale
e
reddituali
dei
coniugi,
essendo
sufficiente
una
loro
ricostruzione
attendibile
.
In
proposito
questa
Corte
ha
in
più
occasioni
affermato
che,
benché
la
separazione
determini
normalmente
la
cessazione
di
una
serie
di
benefici
e
consuetudini
di
vita
e
anche
il
diretto
godimento
di
beni,
il
tenore
di
vita
goduto
in
costanza
della
convivenza
va
identificato
avendo
riguardo
allo
standard
di
vita
reso
oggettivamente
possibile
dal
complesso
delle
risorse
economiche
dei
coniugi,
tenendo
quindi
conto
di
tutte
le
potenzialità
derivanti
dalla
titolarità
del
patrimonio
in
termini
di
redditività,
di
capacità
di
spesa,
di
garanzie
di
elevato
benessere
e
di
fondate
aspettative
per
il
futuro.
Inoltre,
al
fine
della
determinazione
del
“quantum”
dell’assegno
di
mantenimento,
la
valutazione
delle
condizioni
economiche
delle
parti
non
richiede
necessariamente
l’accertamento
dei
redditi
nel
loro
esatto
ammontare,
essendo
sufficiente
un’attendibile
ricostruzione
delle
complessive
situazioni
patrimoniali
e
reddituali
dei
coniugi
(Cass.,
22
febbraio
2008,
n.
4540;
Cass.,
7
dicembre 2007, n. 25618; Cass., 12 giugno 2006, n. 13592; Cass., 19 marzo 2002, n. 3974).
7.
In
definitiva,
in
disparte
la
contestazione
in
apicibus
della
norma
contenuta
nell’art.
145
cod.
civ.,
il
ricorso
non
appare
meritevole
di
accoglimento,
avendo
ad
oggetto
un
decisione
sostanzialmente
incentrata
sulla
determinazione
in
concreto
dell’assegno
di
mantenimento,
che
si
fonda
sostanzialmente
sulla
valutazione
di
circostanze
che,
avuto
anche
riguardo
alle
evidenziate
limitazioni
concernenti
la
deducibilità
in questa sede del vizio di motivazione, è affidata all’apprezzamento del giudice del merito.
8.
Le
spese
relative
al
presente
giudizio
di
legittimità
seguono
la
soccombenza,
e
si
liquidano
come
in
dispositivo.
P.Q.M.
La
Corte
rigetta
il
ricorso
e
condanna
il
ricorrente
al
pagamento
delle
spese
processuali
relative
al
presente
giudizio
di
legittimità,
liquidate
in
Euro
40.200,00,
di
cui
Euro
200,00
per
esborsi,
oltre
agli
accessori
di
legge.
Dà
atto
della
sussistenza
dei
presupposti
per
il
versamento,
da
parte
del
ricorrente,
dell’ulteriore
importo
a
titolo di contributo unificato.
Dispone
che
in
caso
di
diffusione
del
presente
provvedimento
siano
omesse
le
generalità
e
gli
altri
dati
identificativi.
In aggiornamento
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